Ford V Ferrari – Ricostruire L’Epica Americana
È una storia vecchia come il mondo, che parte da un trauma e si snoda, prevedibilmente, attorno alla necessità di tematizzare quest’istanza, arrivando, quando e se possibile, ad affrontarla e risolverla. Più specificatamente, il trauma con cui ci stiamo per confrontare ha a che fare con la creatività, l’arte, ma anche con l’antropologia e la sociologia, ancor meglio, il nostro trauma ha a che fare con un’assenza, l’assenza dei tratti riconducibili all’epica nell’inconscio collettivo americano.
Precisiamo finora che per “epica”, in questo caso, non ci si riferisce (soltanto) alla narrazione delle gesta di un eroe mitico vissuto in un passato leggendario, quanto all’insieme di tutti quei valori, quei caratteri, quegli elementi psicologici che, mediati dal racconto, hanno finito per sintetizzarsi nel nostro inconscio collettivo fino a ricoprire un ruolo di primo piano nella formazione della nostra identità, L’epica è, in sostanza, un modo per raccontare, antropologicamente, il mondo latino e quello greco (almeno per chi, come noi, affaccia sul mediterraneo) e dunque quei europei che dei greci e dei latini sono i discendenti più diretti (anche in termini di influenza).
Se, nel nostro caso, la nostra identità profonda è stata sedimentata da una narrazione millenaria che, di fatto, ha dato corpo a veri e propri sentimenti o istinti della natura umana (l’ingegno, la curiosità, la passione, il coraggio, la solidarietà), la stessa cosa non si può dire per gli americani.
La relativa giovinezza del continente americano, soprattutto, la sua nascita a partire da una violenta conquista, ha fatto sì che nessuno ha mai provato a sistematizzare attraverso la letteratura i tratti essenziali di un inconscio collettivo che un po’ (almeno all’apparenza), sembra essere nato per partenogenesi, un po’ risulta troppo imbastardito (figlio di più realtà e influenze, da quella spagnola a quella inglese) per sedimentarsi attorno a elementi che potremmo definire univoci.
Ironico riconoscere tuttavia, a margine, quanto proprio l’azione di conquista del continente americano abbia irrimediabilmente danneggiato, quando non messo fine, all’epica e alla mitologia delle popolazioni amerinde, quelle si, straordinariamente complesse, straordinariamente stratificate e sistematizzate.
Il popolo americano non ha un’epica, non ha una struttura artistica che lo aiuti a riordinare (o a riscoprire), i tratti essenziali del suo essere profondo, addirittura deve pensare da zero ad un medium che possa raccogliere e incanalare tutti questi stimoli verso il pubblico. E se è vero che il cinema è stato eletto fin da subito a mezzo prediletto per sostanziare quel complesso miscuglio di spunti che potremmo chiamare “Epica Americana”, certo la ricerca della cosiddetta intelaiatura, del sistema formale che possa accogliere la narrazione non è così scontata.
Eppure ci hanno provato.
Prima con il western, il genere ideale per portare alla luce e organizzare valori fondanti della sensibilità americana come il desiderio di avventura, o la cosiddetta “capacità di reinventarsi” (uno dei tratti essenziali del self made man), poi con il genere sportivo, in fondo la cartina tornasole perfetta per portare all’attenzione di chi guarda storie esemplari di tenacia, abilità, strategia, racconti di confronti campali contemporanei con al centro quegli sportivi che sono, in fondo, le entità più simili a Dei che potremmo immaginare.
A lungo, tuttavia, il meccanismo ha finito per rompersi. Con l’arrivo della New Hollywood e di quel Vietnam che ha mandato in frantumi il sogno americano (e la sua narrazione), i creativi si sono resi conto che ciò che stavano cercando non era altro che un fantasma di cartapesta, che dei cowboy era molto più interessante mostrare le contraddizioni (vedi il Wild Bunch di Sam Peckinpah su tutti), o che era molto più utile, molto più solidale con lo zeitgeist, ritrarre gli sportivi come delle divinità cadute (vedi il Grand Prix di John Frankenheimer).
Questo vuole forse dire che la ricerca dell’Epica Americana si è interrotta con la New Hollywood? Ovviamente no, anzi, forse non è mai stata così viva come in epoca contemporanea, il punto, semmai, è capire quali sono ora i caratteri e i limiti di questa ricerca.
Perché il punto è che ora chi vuole confrontarsi con il mito del west o con quello dello sport lo fa declinando il tutto attraverso i due estremi del cinismo e del paternalismo retorico, finendo per far ripiegare il genere (e i suoi obiettivi) su sé stesso. Non esiste (ancora) una sintassi ragionata, delle regole ben organizzate che guidino la scrittura del racconto epico nel cinema americano, esistono delle derive autoriali di questo macrotema che, tuttavia, proprio nel loro essere “autoriali” sono soggettive, opinabili, per questo inadatte al compito che si propongono si affrontare.
Vero è che tentativi di “ricostruzione”, ricognizioni volte a mappare una “mitologia americana” a partire dalle sue radici profonde esplorando le varie declinazioni del western o del genere sportivo ci sono state ma, anche nei casi meglio riusciti, penso a Rush di Ron Howard, si è trattato di prodotti che hanno finito per diventare autoreferenziali, per mostrare più la lettura di un determinato creativo su un genere di riferimento che la volontà di ricostruire una sorta di tradizione tra l’antropologico e il narrativo.
In questo senso, Ford V Ferrari non può, dunque, non attirare la nostra attenzione per il modo, coraggioso e proficuo, in cui prova a far dialogare la tradizione con la necessità di rilanciare questa ricerca secolare all’interno dell’inconscio collettivo americano.
Il senso dell’operazione profonda che si squaderna alle spalle di un film come Ford V Ferrari si inizia a comprendere, forse, solo a partire da una riflessione quasi a latere, relativa alla composizione del team creativo alle spalle del progetto stesso. James Mangold e Michael Mann, rispettivamente nelle vesti di regista e di produttore esecutivo del film sono in effetti due riformatori del genere (il western per Mangold, il noir per Mann), di cui essi hanno analizzato derive, limiti e prospettive soprattutto alla luce della postmodernità in cui hanno operato fin dagli esordi.
Il discorso attorno a Ford V. Ferrari non può che organizzarsi dunque attorno ad una sorta di dibattito in itinere tra istante tematiche differenti, spunti, influenze, prelievi, elementi strutturali che, come in un laboratorio a ventiquattro fotogrammi al secondo vengono fatti reagire, interagire, impattare l’uno contro l’altro, alla ricerca di una sintesi che nessuna delle parti in gioco, a ben guardare, sa che esiti potrà avere.
Ford V. Ferrari si innerva in effetti a partire dalla volontà di saggiare lo stato di salute dell’Epica Americana.
In buona sostanza, ammesso che si possa ancora pensare ad una forma dell’Epica Americana adatta al contesto contemporaneo, quali dovrebbero essere i suoi elementi essenziali, quali le loro interazioni, quale, soprattutto, la forma ideale per restituirne la pregnanza sullo schermo?
Ford V. Ferrari è dunque un’esplorazione nell’archeologia dell’Epica Americana che, in quasi tre ore, prova a rimettere insieme i pezzi di quelli che, secondo il riformatore Mangold, sono i suoi motivi essenziali.
L’Epica Americana deve rinascere a partire da un nuovo linguaggio, un linguaggio che ha le sue radici nel genere ma che deve essere pronto a dialogare con più spunti dai potenziali differenti. Un linguaggio composito dunque che, nel caso del film di Mangold si risolve in un curioso gioco di chiaroscuri.
Ford V. Ferrari è in effetti un progetto di genere sportivo solo in controluce, in realtà, a ben guardare, non è altro che l’occasione per testare, all’interno delle coordinate tipiche dello sport movie le fondamenta del genere western.
Se i piloti di Howard erano Dei totalmente distaccati dal mondo, impegnati in una loro azione di conquista e rinascita, quelli di Mangold sono più istintivamente associabili a dei cowboys. Le difficoltà di una pista come Le Man sono assimilabili a quelle che si possono incontrare nella frontiera inesplorata, il desiderio di sottomettere lo spazio in cui si vive e si agisce (sebbene si tratti, in un caso, di un circuito che è null’altro un’eterotopia Foucultiana), di spingersi sempre più in là dei propri limiti esattamente come si fa con i confini di un territorio, che ad ogni incursione vengono spostati un po’ più in là sono esattamente gli stessi sentimenti che informavano i personaggi dei western di John Ford e che tornano, qui, mediati da Mangold.
Si torna dunque al motivo del cowboy ma ora è necessario trovare una spinta, ricostruire una scintilla, che possa organizzare l’agire di questi archetipi di fatto riattivati su pellicola da Mangold.
Se è vero che non è conveniente ammantare di nichilismo le azioni di quelli che devono emergere agli occhi degli spettatori come degli eroi, al contempo illuminarli di una luce troppo aggressiva potrebbe risultare troppo controproducente e irrealistico.
Mangold, nel suo percorso di ricerca, porta alla luce a questo punto lo spunto drammaturgico più efficace in questo senso: la logica dell’underdog, l’ideale per organizzare un racconto fatto essenzialmente di perdenti coraggiosi, folli e capaci abbastanza da ribaltare le quotazioni in loro favore ed arrivare ad un epilogo il più possibile positivo.
È una lettura ottimistica dell’azione ma i toni crepuscolari, quasi cinici, attraverso cui si snoda, sono sufficienti per ammantarla di realismo e per restituire sulla scena l’atmosfera complessa, incerta, dei nostri tempi.
Dalla fine degli anni ’70 in poi il racconto sportivo si è strutturato, spesso, a partire dal motivo dell’underdog ma il fatto che, negli ultimi anni, questo spunto abbia trovato nuova linfa (pensiamo a Moneyball di Sorkin o a For All The Mankind di Moore), dovrebbe lasciare intendere quanto questo motivo sia pregnante per tutto ciò che, nell’ambito delle narrazioni sportive voglia essere NEL TEMPO.
Mangold è pienamente cosciente di ciò e dunque nutre la narrazione di questo spunto tutto americano, lasciando che i suoi personaggi si muovano sulle coordinate offerte da questo sistema di valori.
Il team creativo vuole però compiere, a questo punto, un passo ulteriore, vuole spingersi oltre.
Perché se davvero di ricostruzione di una Forma Epica si tratta, allora è necessario che questa Forma dialoghi in maniera proficua con la tradizione, con quelle strutture tipiche dell’antropologia Greca e Latina che ne hanno, di fatto, sostanziato, gli stilemi essenziali.
Nessuno, a ben guardare, prima di Mangold ha mai provato ad organizzare tale connessione, per ritrosia, timore reverenziale, insicurezza e, a ben guardare, anche in questo caso, la sceneggiatura si muove su coordinate ben definite e non va mai oltre i confini del conosciuto ma il punto è che ci si muove, si compie un passo che da tempo chiedeva di essere mosso.
In filigrana, appare in effetti evidente che lo sviluppo del rapporto tra i personaggi di Matt Damon e Christian Bale ha in sé il germe di quella simpatia, quella sympátheia, quel patire insieme, tutto greco, quell’amore, quella stima fraterna che avvicina i due ad un Eurialo e Niso o ad un Achille e Patroclo (e simili, in fondo, sono gli esiti tragici di tutte e tre queste amicizie). Non solo, pur mediato dalla poetica tipica di Micheal Mann, tutta rivolta al confronto tra due approcci antitetici allo stesso contesto che fa capo al noir, appare chiaro che le interazioni tra le due squadre, tra la Ford e la Ferrari e tra i loro due fondatori si rifanno, come ovvio, alle altrettanto leggendarie rivalità tra eroi mitici.
Come strutturare, tuttavia, sul piano della forma, una materia tematica e narrativa così densa? Paradossalmente, la risposta è molto più semplice di quanto si creda. Nel solco operativo della ricostruzione di una tradizione, non c’è, forse, mossa migliore da attuare se non quella di lasciare che la messa in scena tiri le fila di trent’anni di film sull’automobilismo, lasciando che stimoli e input diversissimi dialoghino liberamente a seconda di quale sia la forma più adatta con cui portare in scena ciascuna sequenza.
E così, in Ford V. Ferrari appare allo spettatore come un coerente pastiche in cuisi incontra lo stile patinato di Micheal Mann, quello carnale, aggressivo del John Frankenheimer di Grand Prix, quello quasi cronachistico con cui venne girato Le Mans di Lee H. Katzin, quello magniloquente di Ron Howard, ma anche, tangenzialmente, gli sguardi Howard Hawks e Sam Peckinpah.
Di nuovo, ancora una volta, la ricostruzione di una forma del passato non può che passare attraverso la sua rivoluzione, l’approccio composito, una volta che essa entra in contatto con il tempo presente.
È un progetto coraggioso Ford V. Ferrari, che si assume un compito gravoso, che desidera ricostruire le fondamenta antropologiche del modo in cui il popolo americano racconta sé stesso, un’operazione che porta a termine con consapevolezza e intelligenza, non cercando di sintetizzare necessariamente un linguaggio, delle forme, un approccio, originale, ma muovendosi dalla presa di coscienza che solo una struttura porosa, liquida, aperta al dialogo con l’estero, possa offrire il terreno più adatto affinché tali spunti si concretizzino.
Alessio Baronci