Roma FF14 – La Belle Époque – (ri)abitare la complessità
Il fumettista Victor (Daniel Auteuil) odia internet, le serie tv in streaming, odia ciò che sono diventati i media, la politica, le persone, i suoi stessi affetti: in una parola, Victor odia il presente. Capelli e barba pigramente incolti, ormai quasi completamente bianchi, siede disgustato e depresso ai margini di un tempo che non (lo) comprende più, scaricato prima dal giornale (migrato sul web) dove lavorava come vignettista, poi dalla moglie Marianne (Fanny Ardant). Senza più nulla da perdere, salvo i ricordi e i fogli coi suoi disegni (quadri di un mondo che non c’è quasi più), Victor accetta l’invito dell’unica attrazione contemporanea che abbia una possibilità di tentarlo: l’agenzia «Viaggiatori del Tempo», avanguardia nel business della nostalgia, in grado di offrire ai suoi clienti immersioni prolungate in set che riproducono in tutto e per tutto l’epoca ideale e/o perduta. E Victor ha le idee molto chiare su quale momento e luogo del passato rivivere: la sera del 16 maggio 1974, al caffè «La Belle Époque», spazio e tempo dell’incontro più importante (e rimpianto) della sua vita.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma, La Belle Époque, il nuovo film scritto e diretto da Nicolas Bedos, appartiene a quel filone particolarmente ricco (per quantità e qualità) di opere che riflettono su uno dei cardini del (declinante?) paradigma postmoderno: la rievocazione nostalgica del passato. E se il dilemma tra epoche (mitiche e mitizzate), unito all’ambientazione francese e al gusto per i dialoghi caustici e graffianti la borghesia odierna ci riportano istintivamente a Midnight in Paris, la commedia di Bedos si allontana a ben vedere (e da subito) dal discorso (e modello) alleniano. L’idea narrativa alla base della Belle Époque è infatti molto più strettamente imparentata con certe distopie più o meno recenti, dai nostalgici aldilà (o aldiquà?) virtuali visti in Black Mirror agli oscuri parchi-mondi-epoche per ricchi maniaco-depressi di Westworld. Lo stesso Bedos si mostra consapevole di questo aggancio, con un incipit spiazzante fino alla brutalità, che tuttavia è (solo?) uno sberleffo (il primo) agli spettatori, coerente col gusto dell’autore per gli sbalzi di tono già tipico del suo primo film, Un amore sopra le righe (Mr & Mme Adelman, 2017).
Quello di Bedos, infatti, non è un pamphlet sugli orrori che ci riserva (nel futuro) l’impero (presente) delle rappresentazioni, ma (prima di tutto) una prosecuzione dell’indagine dolceamara sulla coppia inaugurata con la precedente opera. La coppia, per l’attore-sceneggiatore-regista francese, è, ancora una volta, il crocevia (vivissimo e/perché contraddittorio) di questioni che coinvolgono l’umanità (non solo) contemporanea: lo scorrere del tempo, il rapporto fra arte e vita, l’accettazione dell’altro, l’evoluzione (o involuzione) della società, la memoria come rappresentazione (di rappresentazioni) non sempre attendibile. Non sembra allora un caso che al centro di questo e dello scorso film di Bedos ricorra un protagonista maschile chiamato Victor, creativo in crisi decostruito nella sua fragilità e colto nella sua problematica relazione con un femminile che è vita (forse) mai pienamente compresa, abbracciata, goduta.
Se in Un amore sopra le righe lo scorrere (e lo scrivere) del tempo sulla coppia era (ri)percorso, circolarmente e sistematicamente, tra il presente e i (già lì) nostalgicamente (e ironicamente) deformati anni ’70, nella Belle Époque le due epoche (più) distanti sono contaminate, (con)fuse: il presente visita materialmente il passato, o meglio la sua ricostruzione sotto forma di (im)perfetta finzione interattiva. La rievocazione, perciò, è contraddetta (ma, proprio per questo, ravvivata) non solo dagli scherzi della memoria (o della deliberata reinvenzione), ma soprattutto dal coro caotico e onnipresente della macchina-spettacolo al lavoro: il 1974 artefatto in cui si muove Victor è anche (e soprattutto) l’avveniristico (chissà per quanto) studio dove operano attori, comparse, autori, tecnici. Non per nulla, a dividere gli spazi e i tempi del racconto con i due protagonisti (e a condizionarne i destini) c’è un altro duetto, quello formato dal regista Antoine (Guillaume Canet) e dalla sua attrice-amante Margot (Doria Tillier). Mentre l’uno, direttore del set-simulacro intorno a Victor, rappresenta la volontà (e la nevrosi) di controllo sulla rappresentazione, l’altra incarna le opposte (e complementari) ragioni dell’improvvisazione, dell’espressività (e verità) che emerge rompendo disposizioni e copioni.
Dunque il gioco di Bedos si fa (ancora, e forse più) autoriflessivo tramite la coppia Antoine-Margot, divenendo (anche) un discorso dell’autore sul (suo) fare cinema: lo stesso film cui assistiamo è una costruzione complessa e dal ritmo trascinante (grazie anche al frequentissimo montaggio alternato) proprio come la scena orchestrata da Antoine. E il tono del ménage di quest’ultimo con Margot, fatto di surreali crisi-riconciliazioni repentine e sovrapposte, è (anche) il contraltare dialettico della più malinconica parabola di Victor e Marianne, rispecchiando così la varietà di umori contrastanti del cinema di Bedos. Ma, più in generale, l’agenzia di set-epoche interattivi ipotizzata nella Belle Époque si pone come lucida allegoria di tutto il cinema postmoderno, nato anch’esso dalla crisi della fiction classica (esplicitata in uno dei dialoghi del film) eppure dipendente dal passato e dalle sue rappresentazioni pregresse.
Dove ci porta, allora, questa meditazione (meta)cinematografica dell’autore sulla coppia (attraverso la nostalgia) e sulla nostalgia (attraverso la coppia)? A un elogio, leggero e intelligente, dell’immaginazione come la (sola) vera linfa che può preservare (o recuperare) un rapporto proficuo con la complessità della nostra vita (in generale) e del nostro tempo (in particolare). È l’immaginazione il vero dono-insegnamento che si scambiano (tra le epoche, i sessi e le generazioni) i protagonisti del film: «continua a inventare», è la sincera esortazione che il giovane regista Antoine, con la sua creazione-rievocazione su misura, vuole dare all’anziano disegnatore Victor, per ringraziarlo di quelle creazioni di carta e inchiostro che da bambino lo hanno confortato e ispirato. È l’immaginazione che può gettare ponti di consapevolezza tra età, punti di vista e piani del reale, in nome delle sfumature e mai delle semplificazioni. I cortocircuiti di cui è intessuta la vicenda, infatti, mettono in crisi non solo la condanna di Victor per il presente, ma anche l’atteggiamento opposto della consorte Marianne, incapace di accettare la propria vecchiaia e trincerata dietro gli ultimissimi feticci tecnologici.
Ogni atteggiamento pregiudiziale, banalizzante e (dunque) acritico nei confronti della realtà (delle realtà) viene messo alla berlina (come le chiacchiere vacue e grottesche degli amici di Marianne che parlano di «e-convivialità» e «clisteri al caffè») o comunque sconfessato. E sconfessata è anche, naturalmente, la tentazione di fuggire dal reale in nome delle (sempre più costose ed elaborate) rappresentazioni. Ma non è una condanna, vana e moralistica, di queste ultime la risposta, come svela meglio di tutte la sequenza del dialogo tra Victor e Margot nella (finta) abitazione di lei: qui (e altrove nel film) le ragioni della realtà vengono espresse, emblematicamente, non attraverso la sua contrapposizione col rappresentato, ma in un problematico e (auto)riflessivo intersecarsi e sovrapporsi dei confini tra l’una e l’altro. Perché solo (ri)scoprendo e accettando la complessità del reale (fatto anche di finzioni) e del presente (fatto anche di passato) si potranno (ri)abitare le contraddizioni del vivere senza farsi inaridire e consumare da queste. E anche (soprattutto) uno spettacolo, se vissuto nella consapevolezza di quanto c’è fuori e dentro di esso, può (e deve) essere uno dei luoghi di tale complessità: un luogo da (tornare a) vedere, toccare, visitare.
Emanuele Bucci