Androidi, feticci, simulacri: Westworld e l’(anti)epica dei corpi postmoderni
Westworld (che dal 15 marzo torna con la terza stagione) è molte cose: una delle serie tv più ambiziose e discusse degli ultimi anni; un’«oscura odissea» sull’«alba della coscienza artificiale e l’evoluzione del peccato», come da presentazione ufficiale; un remake del film (1973) di Michael Crichton che, già dal pilot della prima stagione, ha fagocitato gli spunti dell’originale in una narrazione diramata in molte altre direzioni. Tanto che sarebbe difficile, quasi impossibile, riassumere nel breve spazio di un articolo la quantità di spunti e materiali messi in campo nel corso dei venti episodi cui abbiamo assistito finora.
Ci limiteremo perciò a formulare un’ipotesi di lettura per quello che ci pare uno dei temi più rilevanti della serie, e soprattutto uno di quelli che maggiormente unisce prima e seconda stagione (per molti aspetti assai diverse tra loro, al punto da suscitare le critiche e la delusione di alcuni) in un discorso sinora coerente e in espansione. Questo tema è lo statuto della corporeità. Perché Westworld è anche, per come si sta configurando, una crudele parabola sulla crisi del ruolo e della percezione del corpo (il proprio e quello altrui) nel contesto storico, culturale e antropologico della postmodernità.
Il paradigma postmoderno, che secondo i suoi principali teorici caratterizza la nostra società da almeno un trentennio a questa parte, implica tra le altre cose un’immersione sempre più totalizzante nelle rappresentazioni prodotte e diffuse dai media. Ciò che ne consegue (o rischia di conseguirne), in termini di rapporto con la dimensione corporea, è stato già ampiamente trattato in forme allegoriche proprio da un genere come la fantascienza: creazione di mondi virtuali paralleli, dove il “corpo” mediatico-digitale arriva a confondersi, quando non a sostituirsi, con quello di carne e ossa; assuefazione alla corporeità altrui (dunque anche alla sofferenza di quei corpi) indotta dalla proliferazione di stimoli sensoriali che hanno come oggetto privilegiato l’immagine-corpo; eclissarsi dell’idea stessa di “corpo” nelle varie forme di comunicazione a distanza tra profili “senza volto”, come tra persone e ipotetiche intelligenze puramente digitali.
Nelle forme più disparate, e particolarmente tramite la distopia, la fantascienza contemporanea ha offerto visioni della corporeità (in crisi) postmoderna nelle sue diverse sfaccettature: da Videodrome a Her passando per alcuni episodi di Black Mirror, volendo limitarci alla fantascienza filmica degli ultimi decenni. Westworld appartiene di diritto a questa schiera di prodotti. Ciò che, principalmente, la serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy fa di peculiare, nel panorama delle opere sopra citate, è sistematizzare e articolare la riflessione sul corpo, e più in generale sull’impasse della società postmoderna, nella forma di un’epopea.
Non a caso gli archetipi che maneggia sono (anche) quelli del western, il genere epico per eccellenza dell’immaginario statunitense. Un’epopea assolutamente anticlassica, s’intende: i valori base della collettività che, in quanto epica, Westworld tende a fondare sono dei non-valori, o tutt’al più dei meta-valori, tratti dalla radicale messa in dubbio, dall’esposizione del decadimento (e, forse, dal paradossale rilancio nel decadimento) dei valori su cui si regge la cultura occidentale: l’individuo, il libero arbitrio, persino la stessa funzione dell’atto narrativo come fondamento e cementificazione dei legami all’interno di una comunità.
Westworld, fino ad ora, si è rivelato un racconto corale sulla decostruzione di questi e di altri valori: solo il tempo ci dirà se da questa messa in crisi uscirà fuori almeno un’ipotetica (ri)edificazione di valori alternativi (quelli di una possibile utopia dei Residenti, o di un’altrettanto utopica società di Residenti e umani in armonia, magari?). Finora, abbiamo l’(anti)epica della (auto)distruzione di una società, la nostra, e della (velleitaria, contorta e contraddittoria) tensione all’edificazione di un nuovo ordine. Uno dei perni attorno a cui ruota questa epica tutta negativa è appunto il corpo: la sua estrema degradazione a oggetto, la sua paradossale rivalsa nella messa in crisi, il tentativo (variamente articolato) di trascenderlo. Prima e seconda stagione della serie tracciano le coordinate di due movimenti definiti e consequenziali: sono i primi due libri di un poema in corso sulla crisi radicale della (nostra) carne.
Primo atto: il feticcio immortale
«Gli Ospiti vogliono solo un corpo a cui sparare o da fottere». Così, nell’episodio 1×09, Charlotte Hale (Tessa Thompson) riassume, col lucido cinismo che la contraddistingue, il rapporto che lega i facoltosi visitatori umani del Parco ai giocattoli da usare, violare, distruggere a proprio piacimento, che sono (ridotti ad essere) i Residenti per tutta la prima stagione di Westworld. Questi dieci episodi dipingono, tra le altre cose, uno dei più radicali affreschi sulla degradazione del corpo a oggetto.
Come i Replicanti di Blade Runner, i Residenti sono androidi, esseri artificiali, macchine sofisticatissime che riproducono ad un tale livello di perfezione la forma e i comportamenti di un corpo umano da rendere impossibile notare, almeno dall’esterno, la differenza. Quello che la prima stagione della serie sviluppa da questa premessa, e valorizzando in ciò le possibilità della narrazione seriale, è una riflessione sistematica, di puntata in puntata, sulle dinamiche che regolano e caratterizzano la riduzione di un corpo simil-umano a oggetto di puro consumo, esponendo ed esplorando ogni livello e punto di vista della logica di potere su cui tale riduzione si fonda.
Questo discorso si apre già, emblematicamente, con la prima sequenza del primo episodio: il corpo di Dolores (Evan Rachel Wood) ci viene mostrato in penombra, seduto su una sedia, in una posizione di totale abbandono, con le ginocchia leggermente e mollemente ripiegate una verso l’altra. Alcune luci si accendono rischiarando di poco l’ambiente, mentre si stringe la visuale sulla figura femminile, abbastanza da farci accorgere che è nuda. Si passa a un primo piano della stessa Dolores, di cui notiamo immediatamente gli occhi aperti fissi e la bocca serrata in un’espressione vuota e assente: sembra effettivamente più il volto di una bambola di porcellana che quello di una donna viva, impressione enfatizzata dal particolare della mosca che le passeggia sul viso fino a toccarle l’interno dell’occhio, senza la minima variazione nella posa e nell’espressione di lei. Il dialogo che nel frattempo avviene fuori campo crea un ulteriore contrasto, facendoci supporre che la voce femminile appartenga alla donna-bambola addormentata, la quale rivelerebbe dunque pensieri e reazioni umane. Cionondimeno, le immagini ribadiscono che quella donna non è umana, malgrado possa sembrarlo: è una marionetta, un Pinocchio di rara perfezione ma comunque un pupazzo, un manichino, un simulacro.
Il primo aspetto che Westworld mette in luce, nell’ottica della riflessione sul corpo “oggettualizzato”, è appunto l’identità ambigua del simulacro. Un’identità che si regge su due movimenti opposti e complementari: da un lato, l’elevazione dell’oggetto-simulacro all’umano, in virtù della perfetta somiglianza con gli individui di carne e ossa che riproduce. Dall’altro, l’abbassamento del corpo umano (“umano” in quanto perfettamente replicato) al rango di oggetto-simulacro, ovvero giocattolo di cui servirsi a piacimento. La componente sessuale, accanto a quella violenta, e in particolare l’unione delle due in una pulsione di tipo sadico, gioca un ruolo fondamentale nell’istituzione di questo statuto ambiguo in cui sono confinati-condannati i Residenti.
Pensiamo, sempre nel primo episodio, alla sequenza dell’esame sul corpo di Clementine (Angela Sarafyan) condotta da Elsie (Shannon Woodward) e Bernard (Jeffrey Wright). Quest’ultimo spiega all’altra il funzionamento delle “ricordanze”, piccoli gesti evocati nei Residenti da reminiscenze delle precedenti vite-storie vissute: nel caso di Clementine, si tratta di una lieve, sensuale carezza del dito sul labbro inferiore. Elsie rimane incuriosita da questa piccola improvvisazione del manichino umano, che dona un maggiore effetto di realtà al suo personaggio. La curiosità si tramuta rapidamente in desiderio, come intuiamo dal successivo primo piano di Elsie che continua a osservare, sempre più intrigata, il gesto di Clementine (ripetuto meccanicamente dall’androide in stand-by). Quando Bernard si assenta per alcuni secondi, Elsie coglie l’occasione e, dopo una fugace occhiata per accertarsi che non passi nessuno, bacia la labbra della donna-simulacro inerme. Quindi la guarda e sorride: un sorriso che non sottende tenerezza nei confronti dell’androide, e sembra esprimere piuttosto compiacimento per la realizzazione della fantasia che l’aveva attraversata, in una dimensione di totale controllo sull’altra.
Erotismo e volontà di dominio si fondono sottilmente, riassumendo la dinamica che caratterizza lo statuto ambiguo dei Residenti: la loro elevazione all’umano (alla riproduzione fedele dell’umano) appare necessaria ad innescare nei “veri” esseri umani la dinamica del desiderio; ma parimenti necessario ad alimentare (oltre che a soddisfare) quello stesso desiderio è il movimento opposto, l’abbassamento dell’umano (attraverso il simulacro che lo riproduce così fedelmente) a oggetto. Questo certamente perché il desiderio degli umani (gestori del Parco e Ospiti) non potrebbe realizzarsi con certezza, e fino in fondo, se non in una posizione di assoluto dominio sui corpi-simulacri, ma anche (e soprattutto) perché la sensazione stessa del dominio sul corpo altrui costituisce una componente essenziale del piacere provato. Umanizzazione e de-umanizzazione coesistono necessariamente, quindi, nel rapporto (sempre e comunque sadico, da questo punto di vista) che lega umani e Residenti nel sistema di potere che è Westworld.
Di una ulteriore e fondamentale componente si carica la riduzione del corpo simil-umano a “cosa” se ci riferiamo al rapporto tra Ospiti e Residenti all’interno del Parco. Al di fuori di quest’ultimo, i corpi dei Residenti sono già esposti, in una certa misura, sotto una veste che favorisce il loro essere considerati “altro” e soprattutto “meno” che umani: per la loro immobilità e nudità, per il loro essere segregati-esposti “in vetrina”, per la messa in evidenza del loro statuto di macchine sottoposte a esami e riparazioni. All’interno del Parco e delle sue narrazioni, invece, viene apparentemente meno qualunque soluzione di continuità tra corpo “umano” e corpo “androide”. C’è però altro (e di più) che favorisce la de-umanizzazione dei Residenti e dunque lo sfogo delle pulsioni, e in particolare di quelle sadiche, sulla carne androide.
All’interno del Parco, infatti, i Residenti simil-umani sono imprigionati nei ruoli di una rappresentazione che li schiavizza e li degrada: una degradazione che si esercita primariamente sul piano dei comportamenti e della coscienza (programmandone e riprogrammandone le azioni, cancellandone i ricordi, vietandogli di danneggiare in modo rilevante gli Ospiti), ma anche su un piano più sottile, specificamente “corporeo”. I corpi dei Residenti, cioè, sono “feticizzati” entro e attraverso i ruoli che interpretano: sono declassati da corpi realmente e integralmente presenti-viventi a oggetti catalizzatori di fantasie primarie. Prendiamo ad esempio Dolores. Il ruolo-stereotipo-feticcio in cui la narrazione del Parco la rinchiude è evidente già a livello fisico-percettivo, nel vestito azzurro dalla larga gonna che riflette in modo sin troppo evidente il personaggio cucitole addosso dai narratori: la fanciulla pura, sognante, innocente, finalizzata come tale ad attirare il desiderio (di protezione, ma più spesso di violazione-sopraffazione) dei visitatori. Dunque questa caratterizzazione “feticizzante” dei corpi androidi all’interno del Parco favorisce da un lato lo scatenarsi e il concentrarsi di pulsioni tradotte in fantasie stereotipate, dall’altro depotenzia l’impressione di umanità dei simulacri, degradandoli appunto a meri ruoli-proiezioni.
Un processo evidente, forse ancora più che per Dolores, per Maeve (Thandie Newton). Non a caso, il suo percorso di progressiva emancipazione dal controllo della Delos attraversa la dimensione della corporeità: da un lato, perché a partire dalla reminiscenza e dalla rievocazione delle ferite “fisiche” (non meno di quelle emotive) avviene la progressiva presa di coscienza della sua reale condizione; dall’altro, perché le sequenze chiave nell’affermazione della sua dignità individuale (e per il riconoscimento di essa da parte dei tecnici che prende in ostaggio) hanno come ambiente privilegiato i laboratori dove ogni volta si risveglia, e dove per ovvi motivi si trova senza vestiti: l’esposizione della nudità di Maeve, da questo punto di vista, rappresenta allora (paradossalmente) anche una riaffermazione e una ripresa di possesso della propria autentica fisicità, sottratta e risollevata dal ruolo-feticcio in cui l’aveva confinata (fin dal riconoscibilissimo look da prostituita-maitresse) il sistema del Parco. Per riprendere possesso del proprio corpo (quindi della propria identità) è necessario insomma che il corpo stesso (ri)emerga e si risvegli dal reame (de-umanizzante) delle rappresentazioni.
Possiamo azzardare, a questo punto, un’ulteriore riflessione: nel trattare la degradazione del corpo androide simil-umano a cosa, bambola da usare a piacimento, personaggio-ruolo senz’anima per sfogare le fantasie altrui, la prima stagione di Westworld chiama esplicitamente in causa anche noi, in quanto spettatori. Anche noi, come spettatori che osservano dei personaggi in un film, mettiamo in atto un doppio movimento di umanizzazione e de-umanizzazione dei simulacri di corpi altrui: il nostro coinvolgimento emotivo deriva dall’illusione di realtà restituitaci dal mondo rappresentato attraverso le immagini, dunque da un certo grado di “umanità” che i personaggi (e i loro corpi) proiettano e che noi siamo disposti a riconoscergli. Ma, al tempo stesso, sappiamo che quei corpi, quei personaggi, quelle creazioni, esistono come oggetto passivo del nostro sguardo, “macchine” per produrre in noi pensieri e sensazioni, quali che siano.
Il rapporto tra i Residenti e gli Ospiti allora è inevitabilmente una rappresentazione allegorica, estrema e degenerata, del rapporto ambiguo che lega lo spettatore (e il suo piacere nel guardare) ai personaggi-corpi rappresentati in un’operaaudiovisiva. E lo stesso Westworld, con la sua trama violenta, sembra (anche) volerci far interrogare sul nostro ruolo di spettatori: le numerose brutalità a cui vengono sottoposti i corpi dei personaggi non sono anche quelle che accettiamo (o addirittura implicitamente chiediamo) noi spettatori di film e serie tv legittimamente in cerca di emozioni? La nostra coscienza è tranquilla perché sappiamo che i film sono illusioni, che nulla di cui ciò a cui assistiamo è “vero”. Ma non è, del resto, proprio la convinzione-presunzione di irrealtà, di non-verità e non-umanità (dei corpi e delle rappresentazioni) quella dietro cui si trincerano e si giustificano i fruitori, gli autori e i gestori del “mondo a parte” che è il Parco? E, ancora, qual è lo scopo reale, più profondo, che ci lega come spettatori ai personaggi? Gli riconosciamo il diritto di mostrarci un mondo, una storia, una verità (la loro) che ci possa interessare, insegnare, cambiare, che abbia la dignità di produrre in noi significati nuovi («bugie che ci raccontano verità profonde», per dirla con Ford/Anthony Hopkins), o quelle loro storie sono solo una scusa per nutrire la nostra fame di sensazioni forti?
Sarebbe molto interessante seguire il filo di questi interrogativi sul ruolo e la responsabilità del nostro sguardo di spettatori che la serie implicitamente pone, ma ci porterebbe fin troppo lontano dal centro del nostro discorso. Limitiamoci a focalizzare l’ultimo, fondamentale aspetto riguardante il tema della riduzione del corpo antropomorfo a oggetto nella prima stagione della serie. Questo aspetto è ciò che possiamo definire la relativa eternità del corpo dei Residenti. Il fatto che ogni corpo di ogni Residente sia, per quanto identico all’umano, non solo perennemente “giovane”, ma anche costantemente riparabile e riproducibile, sottrae al loro corpo un ulteriore dato di umanità, ovvero la sua irripetibilità, fornendo un ulteriore alibi per la sua riduzione a mero oggetto di consumo.
I Residenti sono, per usare la terminologia e le strutture concettuali di Walter Benjamin, “riproducibili tecnicamente”, dunque i loro corpi sono privi di “aura”, cioè di quella “sacralità” che pervade gli esemplari unici e non duplicabili. Infatti, per quante volte e in quanti modi un Residente possa venire ucciso e il suo corpo straziato, smembrato, annichilito, comunque la sua natura di essere artificiale aggiustabile e riattivabile farà sì che la sua presenza fisica si riproduca, ogni volta identica alla prima, per un periodo di tempo virtualmente eterno. Ciò, nel sistema di potere sancito dal Parco, non può che sottrarre importanza e “realtà” tanto alla (replicabile) “morte” del corpo di un Residente quanto alla sua (replicabile) “vita”, declassati ad atti di uno spettacolo che si ripete uguale a se stesso. E tanto più la morte e resurrezione di quel corpo, il suo eclissarsi e ripresentarsi identico, sarà ciclicamente ripetuto, tanto più si depotenzierà negli Ospiti la percezione e il riconoscimento della sua umanità, del suo valore e del valore dei gesti a cui lo si sottopone.
La trama decisiva per comprendere il funzionamento di tale dinamica è quella di William (Jimmi Simpson/Ed Harris). Quest’ultimo, durante la sua prima visita al Parco, mostra l’altro possibile lato della riduzione dei Residenti a personaggi di una perenne rappresentazione: un lato meno disumanizzante che, pur accettando i postulati della finzione che ingabbia i Residenti-personaggi, non li degrada a meri feticci su cui sfogare ogni genere di impulso e fantasia (dalla più innocente alla più oscura), bensì li rispetta come parte di una storia di cui lui stesso è personaggio (e protagonista); una storia cui riconosce (ancora) un certo grado di realtà, di verità, elevando perciò i Residenti a creature dotate di una propria dignità, fisica e psicologica, e arrivando persino a riconoscere in Dolores la possibilità di amare ed essere amata.
William si oppone quindi a Logan (Ben Barnes), che ribadisce invece le ragioni della degradazione dei Residenti a meri corpi-oggetto per il divertimento altrui: dialettica che arriva al suo apice nell’episodio 1×09, con la scena in cui Logan sventra Dolores davanti a un impotente William per ribadirgli nella maniera più spietata la non-umanità di quel corpo, l’artificialità evidenziata dalle componenti meccaniche che la ferita lascia intravedere. Questo però non provoca ripensamenti in William, che anzi continua a investire di un’umanità sempre maggiore Dolores, sino a fare del ritrovamento di lei l’obiettivo di un percorso più importante della propria stessa esistenza nel mondo esterno.
Lo shock dell’episodio 1×10, con la rivelazione che William e l’Uomo in Nero (il più crudele tra gli aguzzini di Dolores) sono la stessa persona in due momenti della vita diversi, è perciò un ribaltamento tanto più significativo per il discorso che qui ci interessa: come intuiamo dal racconto retrospettivo dello stesso Uomo in Nero, la ragione di tale ribaltamento non è da ricercarsi solo nel progressivo emergere della parte più efferata e amorale della personalità di William; l’altra, fondamentale ragione addotta è la constatazione che i Residenti, e primariamente la stessa Dolores, non sono “veri”.
Una convinzione che si affaccia in William per la prima volta, non a caso, quando egli ritrova Dolores, ma ripulita, resettata, cristallizzata a ripetere la scena del loro primo incontro. La percezione della non-verità, quindi della non-umanità, dei Residenti da parte di William ha perciò la sua base proprio in quella eterna ripetibilità-replicabilità che caratterizza le esistenze dei robot all’interno del Parco. Una ripetibilità che non sarebbe possibile se la stessa struttura fisica dei Residenti non si prestasse, nella sua longevità e riparabilità e quindi nella sua virtuale immortalità, a questo ciclo eterno (quindi de-umanizzante) di morte e rinascita. Non a caso, corpi “immortali” sono (anche) quelli (fittizi) delle rappresentazioni tecnicamente riproducibili, quelli delle fotografie, dei videogame, dei film: sempre riattivabili e uguali a se stessi ad ogni sguardo, ad ogni accensione, ad ogni proiezione.
L’immortalità del corpo-feticcio che sono (costretti a essere) i Residenti è quindi la più estrema e sottile ragione della negazione di dignità cui li sottopone il regime degli umani. Ma è proprio la loro relativa immortalità che, paradossalmente, costituisce anche il punto di forza e di partenza da cui prende le mosse la rivalsa degli androidi come specie alternativa e addirittura superiore a quella umana. Non a caso, il tortuoso cammino nel labirinto dell’autocoscienza percorso da Dolores attraverso tutta la prima stagione la porta, in ultima battuta, di fronte a se stessa, e a una se stessa che espone prima di tutto la propria “immortalità” a livello corporeo: ancora e sempre identica a come era, priva di qualunque segno visibile del tempo trascorso tra un momento-ciclo della sua storia e l’altro, in emblematico contrasto con la maschera da vecchio sadico che si è ridotto ad essere, frattanto, il giovane William.
Ed è proprio a quest’ultimo che Dolores riserva il monologo sulla superiorità dei Residenti come specie maggiormente in grado di resistente al tempo, un’idea che guiderà la sua crociata nel corso della seconda stagione. Il più profondo motivo di degradazione dei Residenti al di sotto dell’umano si rivolta quindi nella principale ragione della loro rivalsa al di sopra dell’umano: il feticcio scopre di avere una coscienza, quindi anche un corpo (immortale) che gli appartiene. Una consapevolezza che esplode nelle ultime inquadrature della prima stagione, e che spiana la strada al secondo atto dell’epopea.
Secondo atto: la gabbia del simulacro
La seconda stagione di Westworld è, essenzialmente, il racconto di una rivoluzione, con tutte le contraddizioni che la caratterizzano. La posta in gioco di tale rivoluzione è l’autodeterminazione dei Residenti, quindi l’accesso a, o l’edificazione di, un sistema che abolisca strutturalmente la gerarchia di dominio con a capo gli umani, gerarchia di cui la prima stagione ci aveva mostrato il funzionamento. E poiché il sistema di potere degli umani si basa(va) sull’immersione perenne dei Residenti in una rappresentazione, la vittoria decisiva degli oppressi in rivolta sta(rà) nel liberarsi del regime di rappresentazioni in cui erano confinati, quello del Parco.
Ma le risposte che il popolo dei Residenti si dà, al termine di questo secondo atto, sono almeno due: una è il passaggio dal Parco all’«Eden virtuale» della Forgia. L’altra, quella inseguita e infine messa in atto da Dolores/Wyatt, è il passaggio dal Parco al mondo esterno, quello degli umani, per conquistarlo alla nuova e superiore razza androide. Il dilemma è arduo da sciogliere ed entrambe le opzioni sembrano avere una parte di ragione: nell’Eden virtuale, come sottolinea Bernard, i Residenti possono finalmente (ri)scrivere da zero una storia (dunque un sistema, una società, dei valori) totalmente loro, “al di là” dell’umano in ogni senso. Nel mondo esterno, invece, i Residenti dovrebbero giocare, e tentare di vincere, in un contesto già preordinato e precostituito secondo le regole e i valori umani. Ma, è l’obiezione fondamentale di Dolores, quel mondo esterno è comunque l’unico ad essere davvero “reale”, perché «non è replicabile»: non è il risultato di un insieme di dati codificati da mano umana, sia pur apparentemente dalla loro parte. Non è, insomma, un’altra rappresentazione.
In questo bivio qual è il ruolo che si ritrova a giocare il corpo? Abbiamo visto come, nella prima stagione, il corpo, e in particolare quello dei Residenti, fosse tematizzato nelle sfaccettature della sua riduzione a “cosa”, oggetto di cui servirsi e da violare-distruggere a piacimento. E abbiamo visto come questa riflessione culminasse in un ribaltamento della prospettiva, col corpo-oggetto che prende coscienza di sé e assurge, proprio in virtù della (de-umanizzante) riproducibilità-eternità al di sopra dell’umano stesso. Questo ribaltamento è allora, inevitabilmente, una delle linee che la seconda stagione prosegue e sviluppa rispetto al tema della corporeità. La rivoluzione violenta di Dolores si configura anche come una sistematica umiliazione della carne umana, una degradazione che riproduce specularmente la degradazione a cui i corpi dei Residenti erano stati sottoposti.
Se i Residenti erano da violare e uccidere in eterno perché eternamente riproducibili, adesso, nell’ottica di Dolores, gli umani, in quanto corpi mortali, sono da violare e uccidere per suggellarne lo statuto effimero, da falsi dei smascherati. Ma non si tratta, nella prospettiva di Dolores, di un mero “occhio per occhio”, perché l’annichilimento dei singoli corpi umani non è replicabile: dunque non sarà mai paragonabile all’inferno subito dai Residenti, alla riproduzione perenne della sopraffazione e della morte sul corpo individuale. L’unico modo in cui Dolores può restituire, almeno simbolicamente, la sistematica negazione cui il suo corpo è stato soggetto è sostituire alla brutalità reiterata sul singolo corpo quella (reiterata) su corpi sempre nuovi.
Non a caso, allora, se nella prima stagione la violenza era soprattutto ripetizione ciclica, di puntata in puntata e con variazioni, delle stesse efferatezze sugli stessi corpi-personaggi (l’aggressione in casa di Dolores, la sparatoria al saloon-bordello di Maeve), nella seconda essa travolge, in modalità e contesti sempre diversi, una moltitudine di corpi-comparse occasionali. Ma entrambi i modi di rappresentare la violenza ci mettono a disagio, perché entrambi evidenziano la natura di spettacolo delle offese subite dai corpi, degradandoli ulteriormente e chiamandoci in causa come osservatori esterni: e anche in questo riprodurre (davanti a noi) uno show crudele fino alla saturazione, potremmo leggere una componente della rivalsa compiuta da Dolores sugli umani.
Si potrebbe supporre, in aggiunta, che Dolores abbia introiettato nella sua nuova autocoscienza di Residente una sorta di relativizzazione della morte e della violenza, in virtù del suo esservi stata sottoposta così tante volte. Il contraltare “positivo” di Dolores (da questo punto di vista) è senz’altro Maeve: anche lei ormai cosciente della propria storia di degradazioni e annullamenti reiterati, eppure, a differenza di Dolores, in grado di ribaltare la propria sofferenza in empatia. Empatia che si esercita non solo verso le vittime più deboli e a lei più vicine (la Residente “figlia”) ma anche, via via, degli umani con cui si trova a cooperare, innescando in questi ultimi un’evoluzione analoga.
Tutto questo, però, non è ancora la principale linea di sviluppo del tema del corpo nell’economia della seconda stagione. L’altra, fondamentale direzione in cui i nuovi episodi proseguono il discorso sulla crisi della corporeità nel paradigma postmoderno dominato dalle rappresentazioni, è quella che denuncia il corpo stesso come simulacro di cui liberarsi. Se cioè la dinamica della prima stagione era la degradazione del corpo a oggetto in un regime di simulacri-rappresentazioni, la dinamica della seconda è il superamento del corpo in quanto esso stesso simulacro-rappresentazione, da trascendere per essere (più) liberi.
Non a caso, una delle principali chiavi di lettura che è stata proposta per la serie è quella dello gnosticismo: la dottrina gnostica prevede, nella complessità e varietà delle sue correnti interne, un marcato dualismo tra principio spirituale-trascendente e principio corporeo-materiale, dove proprio il corpo materiale è considerato elemento negativo in quanto falsa realtà, istituita e retta, per giunta, da una corte di falsi e imperfetti dei, il Demiurgo e i suoi Arconti. Il corpo materiale e il mondo che lo circonda sono dunque prigioni-simulacri, che le anime “elette” sono orientate a trascendere per potersi salvare. E la tensione a superare in qualche modo la propria corporeità è presente (e urgente) come filo conduttore in molti modi e a molti livelli di questa stagione.
I primi ad evidenziare questa tensione sono, paradossalmente (ma non poi così tanto), gli stessi umani. La seconda stagione, infatti, ci svela il vero scopo della Delos, nascosto dietro il mantenimento del Parco: un esperimento finalizzato a codificare le menti degli Ospiti, osservati nei loro soggiorni, e a riversarle in perfette copie androidi dei loro corpi. Un tentativo, cioè, di garantire agli esseri umani l’immortalità, trascendendo la propria caduca corporeità organica in quella dei Residenti.
Il corpo umano è allora doppiamente messo in crisi: non solo degradato a carne da macello dall’azione di Dolores nei modi che abbiamo visto, ma abbandonato come un’arca che affonda dagli stessi umani coinvolti nell’esperimento della Delos. Crisi duplice e aggravata dal fatto che, almeno per ora, l’esperimento fallisce. La parabola di James Delos (Peter Mullan), raccontata nell’episodio 2×04, ne costituisce la tragica dimostrazione: le conseguenze del passaggio al corpo “da Residente” si rivelano, secondo la spiegazione che fornisce William, insopportabili per la tenuta della mente umana codificata e duplicata. È un trascendimento che non ha nulla di “divino” e tutto di “demoniaco”: «Se vuoi fregare il Diavolo, poi sei in debito con lui», dice (e continuerà, suo malgrado, a ripetere) James Delos.
La rinuncia degli umani al proprio corpo non è, allora, il superamento positivo di una condizione limitata e limitante in favore del salto a uno stato superiore, ma esattamente il contrario: una discesa agli Inferi di una perenne rappresentazione, di un simulacro ancora più soffocante. Quello in cui è costretto a vivere James Delos per i trent’anni successivi alla sua morte fisica è, infatti, un doppio simulacro, e insieme una doppia gabbia: il simulacro di un corpo, copia di quello in carne e ossa stroncato dalla malattia; il simulacro della propria casa di lusso in California, in realtà laboratorio-prigione all’interno di Westworld. E ad un’eterna, infernale rappresentazione, emblematicamente, viene condannato il simulacro del simulacro, nella ripetizione perenne della stessa conversazione-test. Se i Residenti, in modi diversi, fanno di tutto per uscire dalle rappresentazioni, gli umani, ormai totalmente alienati dalla (loro) realtà e assuefatti alla propria illusione di onnipotenza, fanno di tutto per immergervisi ancora di più: arrivando solo, almeno per ora, a costruirsi intorno apocalittiche proiezioni del Male che li pervade.
Più aperto a possibilità alternative sembra essere, fino a questo momento, il cammino dei Residenti verso il superamento della rappresentazione che li ingabbia, e del proprio stesso corpo come parte di quella rappresentazione. Questo trascendimento del corpo è reso esplicito, nell’ultimo episodio, dalla sequenza dell’ingresso nell’Eden digitale. Una sequenza potente anche per l’uso che fa delle soluzioni specificamente filmiche, con due tagli diversi dell’inquadratura a contrassegnare lo scarto tra un piano della rappresentazione e l’altro. Il corpo materiale dei Residenti, quel corpo già eterno ma eternamente degradato, martirizzato dal sistema di potere umano e dalla rappresentazione che aveva creato, deve essere (letteralmente, visualmente), abbandonato, superato, lasciato dietro le spalle a cadere giù come un giocattolo scarico, in favore di una corporeità nuova, che riproduce le sembianze della precedente ma non è più soggetta al ciclo di violenza, morte e rinascita.
Eppure, proprio il fatto che questi corpi codificati nell’Eden appaiano ai nostri (e ai loro) occhi identici a quelli vecchi, sembra insinuare una prima contraddizione, una prima crepa nell’utopico Aldilà virtuale. Quei corpi digitali, simulati, che vediamo nel giardino edenico (altrettanto simulato) della Forgia, sono anch’essi riproduzioni, simulacri di altri corpi e luoghi: sono rappresentazioni. Ciò pare dare dar ragione a Dolores quando dice che anche quel mondo, in quanto rappresentazione, non offre la vera libertà, bensì l’eterno confinamento in un’altra, seppur benigna, gabbia-simulacro.
Che ruolo gioca allora il corpo nella strada intrapresa da Dolores? Apparentemente Dolores non vuole superare la propria corporeità come fanno, per motivi, in modi e con esiti diversi, sia gli umani che gli altri Residenti: vuole piuttosto superare il falso mondo in cui è ingabbiata, portando se stessa, e il proprio corpo, nel mondo esterno che aveva già avuto il privilegio, estemporaneo, di visitare. Tuttavia, l’intervento di Bernard nel’ultimo episodio fa sì che anche Dolores compia, a modo suo, un processo di superamento della propria corporeità, nella forma specifica della morte e ricostituzione in un differente corpo.
Anche questo, a ben vedere, è un trascendimento della dimensione corporea, e una relativizzazione del corpo come gabbia illusoria da oltrepassare (almeno provvisoriamente) per essere liberi. Infatti, uccidendo Dolores e trapiantando la sua unità nella Residente che riproduce le fattezze di Charlotte, Bernard dimostra che la vera essenza di Dolores sta in un insieme specifico di dati (ciò che potremmo definire la “mente” o addirittura “l’anima”), indipendente dall’involucro materiale in cui sono inseriti. Inoltre, è proprio questo superamento della propria vecchia forma corporea che consente a Dolores di fuggire dal Parco, dunque di “liberarsi”. E non sembra nemmeno casuale, a questo punto, che proprio il passaggio da un corpo a un altro apra Dolores a riconsiderare la dignità del Paradiso virtuale dove si sono rifugiati i Residenti superstiti, rinunciando a distruggerlo e anzi modificandone le coordinate per proiettarlo al sicuro dagli umani.
La sintesi del percorso di Dolores sembra raggiunta con la ricostruzione del proprio corpo originario nel mondo esterno: compiuta l’emancipazione dalla gabbia-rappresentazione del Parco, Dolores può riprodurre la propria identità fisica, accettata ormai nella sua natura di simulacro, di involucro sostituibile, di macchina riproducibile tecnicamente: facendo di questa natura non un ostacolo ma una risorsa vincente, un’arma da usare nella sua lotta per la rivalsa contro il genere umano.
Abbiamo quindi esplorato tre punti di vista, tre risposte alla crisi della corporeità nel mondo (postmoderno) dominato dalle rappresentazioni. Tre volti di un’unica apocalisse, esplosa non a caso alla fine della prima stagione, che ci aveva mostrato la degradazione definitiva della corporeità (della sua dignità, autonomia, inviolabilità, irripetibilità) nell’inferno dei simulacri e delle perenni rappresentazioni. La prima risposta, quella degli umani, è la rinuncia alla corporeità (organica) per farsi (vanamente) “una sola carne” con l’oggetto-feticcio delle proprie stesse rappresentazioni (i corpi androidi).
La risposta incarnata dai Residenti nella Forgia è invece la rinuncia alla corporeità (androide), irrecuperabile oggetto-simulacro di una rappresentazione ingabbiante, in favore di una rappresentazione “pura” che trascenda la stessa dimensione fisica.
La risposta che sembra venire da Dolores, infine, è la rinuncia solo parziale alla propria corporeità, ovvero il superamento temporaneo e l’accettazione-utilizzo della replicabilità, della non autenticità di quest’ultima, per evadere dal mondo-sistema delle rappresentazioni e riemergere all’esterno, nel mondo “reale” in quanto “non replicabile”. In tutte e tre le opzioni, comunque, il corpo non si salva, e se viene in qualche modo recuperato ha perso qualcosa, una parte essenziale della propria specificità, della propria unicità, del proprio valore. La visione sul futuro del corpo umano (o post-umano) che ci sta fornendo Westworld sembra cupa quanto l’immagine dell’anima-coscienza che (forse) contiene.
Quali saranno gli ulteriori sviluppi di questo discorso negli imminenti nuovi episodi (che, come da sottotitolo, si focalizzeranno particolarmente sul “New World”, il mondo esterno)? Certamente, anche nel caso di Dolores, sono molti i nodi problematici aperti. Adesso infatti sembrano coesistere una copia-simulacro di Charlotte (con la mente codificata di Dolores) e una copia-simulacro dell’originale Dolores ricostruita dalla “nuova” Charlotte. Non solo due corpi-simulacro, dunque, ma anche due versioni della stessa coscienza, una simulacro dell’altra, calate in due corpi diversi. Cosa comporterà, e come interferirà questo scarto “corporeo” nel confronto tra le due? E quale ruolo giocheranno i personaggi introdotti ex novo, come Caleb (Aaron Paul), che nelle prime immagini (diffuse dai trailer) ci viene mostrato assieme a un robot dalle fattezze assai meno “umane” di quelle dei Residenti?
Non possiamo che attendere le risposte, e senza dubbio in Westworld fare previsioni su ciò che si vedrà è azzardato quanto sancire conclusioni perentorie sul già visto. Ma l’impressione è che l’antiepopea sulla coscienza artificiale non abbia finito di esplorare la crisi (non solo) della corporeità nell’epoca postmoderna: più probabilmente, ha appena cominciato.
Emanuele Bucci