Poké Ball e nostalgia: 25 anni di un’icona pop
Il 27 febbraio 1996, 25 anni fa, venivano da Game Freak pubblicati su Game Boy, in Giappone, una coppia di videogiochi. La grafica non era la migliore mai vista sulla console portatile, il gameplay ruotava attorno a meccaniche rpg non troppo distanti da quelle di altri titoli dell’epoca, Nintendo non credeva particolarmente nel progetto, e la software house dietro la coppia di titoli era una piccola realtà, con pochi dipendenti, e che fino a poco tempo prima si occupava di pubblicare solamente una rivista di videogiochi minore. Cosa c’è di speciale quindi? Dov’è la magia che trasforma una storia non lontana da quella di tanti altri titoli in un pezzo della cultura pop posto a chiudere un secolo e trasportarci in un altro? La risposta, è che i due giochi in questione erano la prima coppia di titoli di un franchise dell’intrattenimento che oggi con i suoi 100 miliardi vale più di qualsiasi altro brand, superando ampiamente realtà come Star Wars, personaggi Disney, Marvel e altri big dell’industria. Stiamo parlando di Pokémon.
Pokémon nasce dalla mente di Satoshi Tajiri e dalla matita di Ken Sugimori. Il primo, racconta che da bambino avesse la passione del collezionare insetti, e che da qui nacque l’intuizione di un videogioco in cui il collezionismo fosse uno dei pilastri portanti. A Ken Sugimori dobbiamo invece il design di tutti quei Pokémon che hanno invaso l’immaginario e l’iconografia dell’epoca d’oro del brand. Se 25 anni fa i mostri tascabili (Pokémon è un neologismo che nasce dalle due parole “Pocket” e “Monsters”) erano qualcosa di semi-sconosciuto da chiunque sul nostro amato sassolino bagnato che chiamiamo Terra, oggi possiamo gettare lo sguardo indietro e osservare qualcosa che è stato ed è più della somma delle sue parti, più di una serie videoludica, più di un brand sconfinato, più di una serie di animazione e a fumetti, ma un vero e proprio fenomeno sociale che travolse letteralmente il mondo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, e che seppur mitigato nella sua forza dirompente rispetto alle sue origini, rappresenta ancora oggi una realtà viva e vegeta, come dimostrato nel 2016 con il titolo per smartphone Pokémon Go, quando per mesi la parola Pokémon è tornata ad occupare TV, giornali e il web, con folle di persone che vagavano per strada partecipando al gioco di realtà aumentata più virale mai pubblicato.
In Occidente, il vero boom arrivò tuttavia con la messa in onda della serie animata, la quale riprendeva la struttura della trama di Pokémon Rosso e Blu e la arricchiva di ulteriori elementi. La serie, che qui in Italia era trasmessa da Italia 1 e godeva delle indimenticabili sigle cantate dall’intramontabile Giorgio Vanni, ebbe talmente tanto successo, da spingere Game Freak a pubblicare una terza versione del gioco, Pokémon Giallo, in cui abbondavano i riferimenti alla serie e l’onnipresenza di quella che da lì in poi sarebbe diventato il Mickey Mouse degli anni ’90: Pikachu. La serie animata di Pokémon fu pensata con il chiaro obiettivo di pubblicizzare il brand, e se nella mente dei suoi autori non doveva essere connotata come un prodotto per bambini, assomigliando molto di più ad altre serie di anime giapponesi del periodo, la produzione spinse per dei toni più adatti ad un pubblico di bambini pronti a costringere i genitori a comprare carte collezionabili, album di figurine, giocattoli, abbigliamento e ogni altro oggetto che riportasse fattezze provenienti da questo universo, contribuendo a spingere il franchise verso una connotazione più spensierata e giocosa di quanto non fosse originariamente immaginato dai suoi autori. Stessa sorte toccò ai lungometraggi di animazione che furono distribuiti nei cinema, tristemente limitati nella loro profondità da direttive di marketing che volevano puntare di più su un pubblico di giovanissimi, anche se capaci di regalare momenti di riflessione su temi tutt’altro che banali, come l’autodeterminazione ad esempio, nel primo film dedicato alle creature di Game Freak.
A cavallo tra un secolo e l’altro, i Pokémon erano diventati come i Beatles, chiunque sapeva di cosa si trattasse, qualsiasi bambino, che avesse giocato i titoli per Game Boy o meno, consumava contenuti a tema Pokémon, e in modo dirompente si arrivò al vero e proprio fenomeno sociale, con una popolarità sempre crescente e che ormai aveva contagiato tutto il mondo. Ma al di là di una massiccia e ben gestita campagna di marketing, cosa contribuì a creare il fenomeno di massa che in questi giorni festeggia 25 anni? La domanda sorge spontanea, se consideriamo che moltissime serie videoludiche, anche piuttosto longeve, difficilmente sono riuscite ad arrivare agli stessi risultati.
Possiamo iniziare dal design dei personaggi. I mostri creati da Tajiri e Sugimori non sono davvero così mostruosi, anzi, sono realizzati con un tratto semplice, morbido, sono caratterizzati da uno stile che li rende facilmente riconoscibile rispetto ai numerosi cloni che negli anni hanno provato a ispirarsi ad essi, rendendoli facilmente appetibili ad un pubblico di adulti ma soprattutto di bambini e bambine, smussando tutti gli aspetti più controversi che nel concept originale dovevano renderli decisamente più mostruosi da un punto di vista grafico. Ma un aspetto centrale che ha sempre contraddistinto tutto ciò che fa parte della galassia di prodotti di intrattenimento a tema Pokémon è il concetto di “attività”. Che si tratti di un episodio della serie videoludica, del popolare gioco di carte collezionabili, di action figures e così via, il mantra resta sempre lo stesso: “Acchiappali tutti!”. Non si può prescindere da questo elemento, dato che in tutte le sue incarnazioni, le creature da collezionare sono moltissime, differenti tra loro, e c’è sempre qualcosa in più che possiamo collezionare, avere, e scoprire. Un universo in espansione in cui ognuno può trovare le proprie creature preferite, ognuna dotata di un background più o meno articolato, e che rendono l’universo Pokémon vivo, ne definiscono la lore, e danno profondità ad un ecosistema che sin dalle sue origini ha puntato sull’interazione, sulla comunicazione e sulla collisione del nostro universo con l’intangibile mondo delle creature tascabili. Per chi volesse approfondire ulteriormente, un team della Duke University in una pubblicazione dal titolo Pikachu’s Global Adventure: The rise and fall of Pokémon ha analizzato questi elementi da un punto di vista sociologico.
Se consideriamo la serie videoludica, emergono inoltre altre peculiarità. Siamo attualmente giunti all’ottava generazione, ciò significa che i Pokémon sono ormai quasi 900, e nel corso della loro storia venticinquennale, ogni coppia di titoli ha riempito il catalogo delle console di casa Nintendo. A sua volta, esiste una serie principale di videogiochi, che prosegue a partire dai capostipiti Rosso e Blu (Verde, in Giappone) e ne ha di volta in volta arricchito le meccaniche e la profondità narrativa, e una serie infinita di spin-off. Agli elementi già descritti sopra, si aggiungono altri ingredienti magici che caratterizzano da sempre la serie di videogiochi principale. Un primo aspetto lo ritroviamo già nella forma in cui sono sempre stati proposti i titoli della serie, ossia in coppia. Pur essendo lo stesso titolo, le due versioni di ogni generazione del videogioco hanno proposto delle piccole variazioni nella trama, differenti creature esclusive di una versione o dell’altra, con il chiaro obiettivo di spingere i giocatori a confrontarsi tra loro, comunicare e interagire. Sin dai primi titoli della saga è sempre stato possibile scambiare i Pokémon con altri giocatori e lottare, con il vantaggio che tutto questo avveniva su una console portatile, in un’epoca in cui inizialmente non era ancora diffuso il gioco online. Se eri un bambino alla fine degli anni ’90, non importava dove ti trovavi, se avevi con te il tuo Game Boy, potevi sicuramente giocare e fare amicizia con altri bambini che giocavano anche loro, e questo fattore di aggregazione legato al mondo Pokémon è forse una delle sue magie più riuscite. L’allenatore di Pokémon non era solo il personaggio presente nella cartuccia di gioco, eri tu che portavi con te la tua squadra, che avevi allenato e potenziato, che avevi scelto e selezionato in base alle tue caratteristiche, includendo degli aspetti di personalizzazione, di crescita e di evoluzione estremamente motivanti nel continuare a giocare e nel dare un senso di progressione, ma soprattutto quel mondo non terminava nei pochi centimetri dello schermo di un Game Boy, ma proseguiva negli scambi, nelle lotte e nell’immaginario condiviso di milioni di bambini (e non solo).
Ma un ulteriore aspetto che ha contribuito a dare profondità e fascino alla serie di videogiochi, sono state le leggende metropolitane legate ad essi. Tra Pokémon che si diceva esistessero anche se mai rivelati all’interno dei giochi, misteriose procedure per andare oltre il livello più esterno dei giochi, per penetrare quel sottomondo che si diceva esistesse all’interno dei primi titoli e rivelare qualcosa di misterioso, di inafferrabile. Queste leggende metropolitane vennero alimentate da Game Freak stessa, che inserì ad esempio il Pokémon leggendario Mew all’interno dei primi giochi, ma senza rivelarlo, contribuendo a generare un vero e proprio universo parallelo di leggende e miti sui primi capitoli di questi giochi. Tutto questo era incredibilmente affascinante per un bambino, in un’epoca in cui internet non era ancora davvero così diffuso e le voci che circolavano tra i compagni di scuola e gli amici avevano sempre il fascino della possibilità, del mito, anche quando davvero assurde. Nel corso della saga alcuni di questi aspetti si sono persi, portando tuttavia la stessa Game Freak a investire decisamente di più nella trama, nel creare una lore di questo universo narrativo, mantenendo sempre la caratteristica di non rivelare mai del tutto, e lasciando sempre ai fan la possibilità di provare a dare loro un senso a ciò che era narrato, lasciando uno spazio grigio attraverso cui interpretare gli eventi narrati nei giochi. Questo riconoscimento di una componente più complessa e profonda della serie è andato di pari passo con la crescita anagrafica di coloro che giocarono con i primi titoli della serie, culminando nel recente annuncio per il 2022 di un nuovo filone videoludico della serie di videogiochi principale, ossia Leggende Pokémon, con un mondo open world più maturo e concentrato sulla trama, in cui vengono affrontate le origini di questo universo, e che rappresenta il primo vero riconoscimento da parte della software house di una realtà ormai stabile da anni: una gran parte del pubblico della serie videoludica è composto da trentenni.
Se infatti il brand mantiene tutt’ora un aspetto e una connotazione mirata sicuramente anche ad un pubblico di bambini, sono moltissimi i videogiocatori adulti che sono appassionati della serie. Questo può apparire strano, ma se osserviamo il fenomeno non lo è affatto. Allo stesso modo in cui esiste un universo narrativo dedicato ad altre saghe, come Star Wars o Harry Potter ad esempio, ne esiste uno per Pokémon, con le sue regole, la sua genesi, i suoi elementi, e questo sarebbe già un motivo sufficiente a far comprendere come, seppur pensati per essere appetibili per i bambini (come i personaggi Disney ad esempio), le creature di Game Freak possono avere fascino per chi segue questo mondo. Un secondo aspetto è rappresentato dal mondo dei giocatori competitivi, le cui meccaniche sono tutt’altro che semplici ed accessibili a dei bambini e richiedono una grande padronanza di strategie e tecniche che non temono il confronto con altri franchise di gioco competitivo online. Un terzo aspetto, seppur banale, è che i Pokémon sono a tutti gli effetti icone pop. Chiunque sa chi è Pikachu, chiunque se vede una Poké Ball sa di che oggetto si tratta, quindi le schiere di simpatizzanti per il mondo Pokémon sono assai numerose, come dimostrato dal fenomeno di Pokémon Go, che ha risvegliato il bambino di 8 anni sopito in milioni di adulti. Ma nell’amore verso Pokémon di un trentenne (anno più, anno meno) c’è qualcos’altro, ed è la nostalgia, nel senso migliore e più nobile del termine.
Pokémon ha ancora una folla sconfinata di fan in tutto il mondo, di ogni età, che rende giustizia ad un universo narrativo, videoludico e non, che possiede qualcosa di magico, qualcosa che ad un bambino degli anni ’90 è entrato nella testa e nel cuore, e non ne è mai più uscito veramente.
I pomeriggi al parco a sfidare gli amici, l’album delle figurine e i mazzi di carte da collezionare e scambiare durante la ricreazione, i pomeriggi su Italia 1 in compagnia della serie animata, gli scontri con le miniature su una panchina, così come le vacanze estive in cui conoscevi nuovi amici proprio perché anche loro, a qualsiasi latitudine giocavano a Pokémon. C’erano le leggende e i miti, e c’era la nostra vita di bambini degli anni ’90.
Nella pellicola di Woody Allen Midnight in Paris, uno dei personaggi, a proposito della nostalgia, esclama “Nostalgia è negazione, negazione di un presente doloroso… Il nome di questa negazione è il pensare ad un’epoca d’oro, l’erronea nozione che vi è un periodo migliore di quello in cui si vive. È un volo nell’immaginario romantico di coloro che trovano difficile convivere con il presente”. Ecco, se intendiamo la nostalgia in questo senso, rischiamo di perdere il suo vero significato, che non è perdersi in un passato idealizzato, ma provare un’emozione che ci riporta indietro negli anni, che noi stessi abbiamo vissuto, e ci trasmette il calore di momenti felici avvolti dalla spensieratezza e allo stesso tempo la consapevolezza che il tempo è passato. Ma se come sostiene Harvey Keitel in Youth “Le emozioni sono tutto quello che abbiamo”, allora Pokémon diventa un meraviglioso passaggio per la nostra mente per recuperare e ricordare quelle emozioni di bambini, lasciandoci in pace dal doverci continuamente definire come adulti grigi e spenti che devono produrre e consumare.
Pokémon, per un adulto, è uno dei molti modi di recuperare quella capacità di immergersi in un passato che fa parte della nostra vita, riportarne con sé la parte migliore nel presente attraverso la bellezza e la meraviglia del “giocare per giocare”, e per ricordarci che, in fondo, siamo gli stessi bambini che andavano a caccia di Pokémon in un’estate alla fine degli anni ’90.
Ci siamo solo evoluti.