Questa è la via – Noi e The Mandalorian 2
Quando la seconda stagione di The Mandalorian è finita, a inizio Dicembre, era chiaro a tutti, anche a noi che da anni ci occupiamo di cinema, serialità, intrattenimento di massa in generale, che era terminato un progetto che, per valori produttivi e coraggio, era semplicemente troppo grande da trattare in maniera convenzionale.
Per questo abbiamo atteso finora. Perché un progetto caratterizzato da così tante linee tensive aveva bisogno di una forma non tradizionale per essere trattato. Per le tematiche che affronta, per il modo in cui si rapporta al materiale narrativo di partenza, per le modalità attraverso cui sceglie di entrare in contatto con lo spettatore.
Abbiamo quindi deciso di fare un passo indietro, avvicinandoci a Mandalorian in maniera genuina, cercando di limitare il più possibile i filtri accademici, propri degli studiosi (che comunque abbiamo usato), per provare a capire come mai la serie di Favreau e Filoni ha avuto un impatto così dirompente nel panorama dell’intrattenimento contemporaneo, ragionando prima da spettatori e poi da critici.
Ci siamo riuniti, come amiamo fare, e ognuno di noi ha scelto il suo episodio preferito della seconda stagione, provando a restituire in una manciata di battute i motivi per cui considera quella puntata il punto più alto dell’arco narrativo, tentando di comprendere le unicità del progetto seriale Disney nel particolare di una puntata da una trentina di minuti.
Questo è ciò che è venuto fuori dal nostro dialogo con The Mandalorian.
Capitolo 9 – Lo Sceriffo (di Sabrina Podda)
Si dice sempre “chi ben comincia è a metà dell’opera”. E dopo un finale di stagione col botto, di sicuro il primo episodio della seconda stagione di The Mandalorian non poteva che essere all’altezza dell’adagio.
Favreau dirige l’episodio di apertura e risponde subito a una della grandi domande che il pubblico si è posto fin dall’uscita delle prime anticipazioni sulla seconda stagione.
Boba Fett è davvero vivo e sta per tornare? Abilmente costruito, l’episodio non si nasconde, anzi offre subito una risposta: niente è come ve lo aspettate. Il regista imposta subito un gioco con lo spettatore, non nascondendosi ma mostrandosi apertamente e sorprendendo chi guarda. Quasi a voler dire: “Se sono risposte quelle che volevate, eccole, ma non aspettatevi che sia così facile!”.
Il primo Mandaloriano incontrato dai nostri protagonisti è proprio lui, Boba Fett, senza essere lui. Tutto l’episodio ci mostra un falso Boba, vivo, con armatura e tutto il resto, e proprio nel momento in cui il pubblico pensa di aver avuto le risposte che cercava, ecco che appare un uomo sconosciuto, sul finale dell’episodio.
Per i fan meno accaniti potrebbe essere chiunque, per chi invece vede più lungo, nelle pieghe della storia, avrà sicuramente già capito che si tratta del vero Boba Fett, di ritorno dall’oltretomba e in cerca del suo retaggio.
Un episodio, questo, costruito perfettamente pensando al marketing, all’hype e alle aspettative del pubblico, il tutto in una cornice Western ben studiata dal regista.
Tornano atmosfere desertiche e arse dal sole, che probabilmente rimandano ad Iron Man, e vengono utilizzati degli elementi iconografici del genere di rimando.
Tutta la cittadina di Mos Pelgo è costruita proprio come una città fantasma del Far West, rialzata dal terreno e costruita in un materiale simile al legno.
L’architettura resta però vicina a quella tradizionale della saga, una scelta che tuttavia ben si addice a questa commistione di generi.
Lo stesso primo incontro tra lo Sceriffo e Mando ricorda un duello in un saloon, con il barista che richiama vagamente nel look un capo indiano. E come in ogni film classico che si rispetti, il protagonista arriva in città, salva la situazione, e riparte verso il tramonto. Una mescolanza di generi ben riuscita, ma allo stesso tempo con i tratti propri di ognuno ben riconoscibili. Il tutto per giocare con lo spettatore su uno dei ritorni più attesi della seconda stagione e per iniziare subito senza paura, creando subito attesa e aspettative. Con un inizio così, si può solo avere una grande stagione!
Capitolo 13 – La Jedi (di Laura Sciarretta)
The Jedi era probabilmente l’episodio più atteso della seconda stagione di The Mandalorian. Un’attesa abbondantemente ripagata grazie alla consueta solidità narrativa capace finalmente di rilanciare le ambizioni della serie verso orizzonti più vasti.
Si tratta di un piccolo ma fondamentale traguardo che andrà a segnare i prossimi sviluppi non solo per quanto riguarda le avventure di Din Djarin e del Bambino, ma soprattutto per il futuro dell’universo Star Wars per come l’abbiamo conosciuto fino ad ora.
Non è una caso che a dirigere e scrivere l’episodio ci sia Dave Filoni, co-autore della serie insieme a Jon Favreau e creatore di tutta una serie di prodotti legati al franchise di Star Wars le cui narrazioni sono state costruite attorno agli eventi principali della saga cinematografica ma con personaggi del tutto inediti per lo spettatore legato unicamente ai film di Lucas e alla nuova trilogia.
L’entrata in scena di Ahsoka Tano, personaggio nato e cresciuto all’interno delle serie animate The Clone Wars e Rebels, entrambe create da Filoni, è dunque il perfetto punto d’incontro tra gli eventi legati al Canone (qui citati dai racconti sulla caduta dei Jedi e dal culto della Forza) e quelle narrazioni esterne curate da Filoni attraverso la serialità.
Un capitolo che finalmente offre un nome (Grogu) e una storyline al personaggio di Baby Yoda e mostra una rilevante evoluzione nel legame tra Din Djarin e il piccolo, dando anche l’occasione a Filoni di offrire una caratterizzazione più matura e cupa del personaggio di Ahsoka, temprata dagli eventi di Rebels, merito anche del buon lavoro interpretativo offerto da Rosario Dawson.
I riferimenti al passato offrono diversi momenti degni di nota: ad esempio il dialogo tra Ahsoka e Din Djarin nella foresta, che richiama fortemente alla memoria l’incontro tra Luke e il Maestro Yoda su Dagobah; così come la riluttanza di Ahsoka nell’addestrare il Grogu trova perfetta esplicazione in riferimento alla parabola discendente di Anakin Skywalker. Così come sono ben inseriti i vari rimandi a immaginari, forme e linguaggi che si fondonoalla perfezione attraverso una dimensione visiva capace di far convivere il cinema di Sergio Leone e quello di Akira Kurosawa, lo spaghetti western e il jidai-geki nipponico.
Alla fine, Din Djarin e Grogu riprendono il cammino, diretti verso il pianeta Tython, meta in cui il destino di entrambi avrà una svolta drammaticamente decisiva. Ahsoka Tano si congeda dallo spettatore con la sua solitaria e silenziosa figura, come un ronin giunto alla fine del suo viaggio. Noi spettatori la salutiamo ben consapevoli che questo non è un addio, ma solo un arrivederci.
Capitolo 14 – La Tragedia (di Emanuele Bucci)
Capitolo cruciale e tra i più densi di pathos della stagione, The Tragedy è anche uno dei più adatti a sfatare il mito di una presunta staticità e ripetitività della struttura narrativa di questa serie. I nodi disseminati iniziano a venire compiutamente al pettine, aprendo una frattura tanto più traumatica in quanto variamente scongiurata nei precedenti episodi, il rapimento-perdita del piccolo Grogu. È la conferma che il riproporsi di motivi (a prima vista) simili nel corso delle due stagioni è non solo un omaggio alla serialità del passato, ma anche una strategia non banale (nell’era delle serie-film o serie- romanzo) per accentuare l’impatto di un evento che squarcia l’apparente continuità. D’altronde, il ritorno di Fennec (Ming-Na Wen), creduta morta nella scorsa stagione, dimostra che ogni capitolo dell’epopea di The Mandalorian è molto meno chiuso in se stesso di quanto sembri. Se poi aggiungiamo il ritorno di un personaggio di culto come Boba Fett, ci rendiamo conto che la (sempre più) complessa serializzazione di questa stagione va ambiziosamente ma felicemente ad abbracciare e sviluppare la saga cinematografica.
Non solo la trilogia originale, ma anche la prequel, con la filologicamente impeccabile presenza di Temuera Morrison (il Jango Fett de L’attacco dei cloni) nei panni di Boba. E mentre i protagonisti (e non) maturano e mostrano nuovi lati di sé, non si rinuncia a offrire un’altra mezz’ora di grande spettacolo (dirige il compagno d’avventure pulp di Tarantino, Robert Rodriguez) al confine tra western e sci-fi. Ma, ancora, spiazzando: quello che inizia come un duello fra due cowboy-ronin della saga diventa un’epica quanto disperata (per certi versi più che nel final season) battaglia di pochi irriducibili contro tanti (troppi), dove si insinua il crepuscolarismo del Mucchio selvaggio: con la differenza che, qui e stavolta, una vita per cui combattere sino in fondo c’è.
Capitolo 15 – Il Vendicatore (di Alessio Baronci)
No, Non è come pensate.
La rivelazione del volto di Din Djarin, apice emotivo di una sequenza dai tempi volutamente dilatati, in realtà non c’entra niente. Non è per quello che Il Vendicatore (ma che bello è, fuori da ogni deriva esterofila, il titolo originale, The Believer?), è, forse, il momento più alto della seconda stagione di The Mandalorian.
L’ho scelto, piuttosto, per lo straordinario senso di libertà che si respira durante tutto l’episodio.
Mi spiego meglio: tutto The Mandalorian può essere letto come il racconto della ricerca che coinvolge Dave Filoni e Jon Favreau, impegnati per otto puntate a rompere il codice, fatto di convenzioni e aspettative degli spettatori alla base del sistema narrativo di Star Wars. La liquidità dello spazio digitale che plasma il reale in cui ci muoviamo (e che guardacaso accoglie anche la serie, distribuita solo sulla piattaforma streaming Disney+) impone infatti un rinnovamento del sistema linguistico che passa anche per la ricombinazione e la libera interazione di spunti, temi, input spesso non direttamente afferenti a Star Wars ma necessari a liberarsi di certi obblighi che hanno raccolto il favore dei fan tradizionalisti impedendo però alla saga di essere davvero nel tempo.
Filone e Favreau costruiscono quindi un’architettura narrativa prelevando spunti e materiali alla maniera postmoderna ma prendendo atto di come ci si stia confrontando con dettagli, temi, idee che comunicano tra di loro secondo una sintassi digitale organizzando ipertesti e aprendo percorsi imprevisti ad ogni nuova connessione.
La libertà di giocare con “Il Codice Star Wars” esplode proprio in The Believer.
L’episodio è infatti il primo che esorbita evidentemente dal canone e dialoga tanto con il cinema di William Friedkin quanto con quello di George Miller spingendosi fino al teatro minimalista con l’apice dell’episodio, che si, cita l’operazione Cenere dell’universo espanso e Bastardi Senza Gloria ma che è probabilmente il punto di non ritorno di un intero franchise. La fantascienza massimalista Lucasiana si riduce a tre personaggi, ad una scenografia spoglia e ad un dialogo che rischia di scaraventare nell’abisso gli interlocutori. È, forse, il grado zero del codice, un universo di spunti e connessioni racchiusi in una stanza e forse provvidenzionalmente raccolti nel personaggio di Mayfield, vero e proprio homo novus del franchise, stormtrooper pentito che, in uno screen time di neanche mezz’ora riesce ad essere molto più umano e reale di decine di comprimari con cui lo spettatore si è confrontato nelle trilogie cinematografiche. Filoni e Favreau hanno rotto il sistema, hanno trovato un nuovo punto di partenza. ora non rimane che scavare e capire dove arrivare.
Capitolo 16 – Il Salvataggio (di Federico Diano)
Siamo all’epilogo di questa seconda stagione, Grogu è stato rapito da Moff Gideon e gli altri protagonisti preparano un assalto all’incrociatore per salvare il bambino dalle truppe imperiali. Sin dall’inizio, l’episodio cita magnificamente il passato, quando Koska Reeves, ascoltando la voce di Boba, riconosce la voce dei cloni, citando ancora una volta la trilogia prequel, di cui si avverte non poche volte l’eco in questa stagione dedicata al Mandaloriano, segno che nonostante i malumori iniziali, anche gli episodi più criticati della saga principale hanno saputo ritagliarsi uno spazio importante nel cuore dei fan. Anche l’ingresso della nave imperiale nell’incrociatore, con il suo equipaggio che, lanciato alla volta del salvataggio di Grogu, tenta di ingannare gli ufficiali imperiali, evoca un piacevole parallelismo con altre illustri scene di atterraggi sotto copertura ben note ai fan della saga. Ma ciò che caratterizza questo ottavo episodio è la sua densità di eventi, di domande che si aprono per il futuro della saga, con una densità di elementi che cresce progressivamente verso la seconda parte dell’episodio. Cosa ha fatto Moff Gideon con il sangue di Grogu? Come si risolverà l’empasse della darksaber che costringerà Bo-Katan e il Mandaloriano ad affrontarsi, affinché la prima possa rivendicare il trono di Mandalore? Il ponte verso la prossima stagione, e non solo, è stato gettato.
Ma c’è un ulteriore ragione per cui questo episodio è degno di nota. Una sequenza di scene in cui è impossibile non cogliere il riferimento simmetrico e speculare alla conclusione di Rogue One. In quel caso era l’apparizione di una spada laser rossa ad accendere una scintilla nello spettatore, alcuni frammenti di leggenda in un film incentrato su personaggi secondari, lontani dalle luci della saga, pochi secondi di qualcosa di immensamente più grande. Un Ala-X che atterra con una calma irreale, una figura avvolta in un mantello con un cappuccio a nasconderne il volto, la luce di una spada laser verde: Luke Skywalker. Notevole, e graficamente meglio riuscita della rappresentazione di Leia già avvenuta in Rogue One, la ricostruzione in CGI di un Mark Hamill ringiovanito, un aspetto che gioca a favore dell’impatto delle scene finali, le quali avrebbero pericolosamente risentito di un comparto tecnico non all’altezza. Il finale è commovente. Il Mandaloriano si toglie l’elmo, e con esso cade un muro. Per la prima volta lui e Grogu possono guardarsi negli occhi, appena in tempo per dirsi addio.
Abbiamo visto molto. La porta si chiude. Fine.