Widows – il demone del cinema di genere
Ci si è indignati, forse, per i motivi sbagliati. La gran parte degli spettatori che in questi mesi si è confrontata con Widows, primo film post Oscar di Steve McQueen, non ha esitato a vedere in questo progetto il primo passo veramente falso del cineasta inglese. Dopo la vittoria della statuetta Mcqueen si è imborghesito, ha ceduto al vile denaro, ha diluito il suo sguardo attento alle questioni sociali più spinose nelle dinamiche superficiali del film di genere, ha scelto, forse, di confrontarsi, con l’America contemporanea, quella stessa America del #metoo e dell’ambiguità politica con superficialità e, soprattutto, desideroso più di sfruttare una moda che per vero e proprio interesse per la causa.
Il punto, tuttavia, è che se da un lato tutte le critiche finora poste a Widows partano da una base oggettivamente inattaccabile nessuna di esse sembra aver centrato ancora il punto della questione. Si sta attaccando il regista per la sua volontà più o meno evidenti di piegarsi alle leggi del mercato mentre si sta ignorando il vero e proprio centro nevralgico della questione: il metodo di lavoro, l’approccio alla materia, le modalità con cui il team creativo ha scelto di confrontarsi con il cosiddetto cinema commerciale.
Ne discutiamo spesso della questione, su queste pagine. È comprensibile che un autore abituato a lavorare e a confrontarsi sempre con la stessa nicchia di spettatori e di mercato scelga, più o meno improvvisamente, di lavorare ad un progetto più semplice, aperto, un progetto capace di coinvolgere fasce più ampie di pubblico. Ovvio, tuttavia, che si tratta, malgrado l’apparenza, di un’operazione profondamente delicata, in cui, come ripetiamo spesso, la conoscenza del mezzo, del genere, del contesto di inserimento del tuo progetto sono elementi fondamentali e non vanno sottovalutati per nulla al mondo. È su tali elementi, paradossalmente, che si giocherà il successo del tuo film, poi, solo poi, entreranno in gioco fattori quali lo script, la regia, la cura dell’elemento visivo. In questo senso è impossibile notare quanto Steve Mcqueen appare impacciato, imbarazzato, incapace di districarsi appieno con il materiale narrativo e ideologico che è alle spalle di Widows.
Forse, alla base di tutto, c’è la generale incertezza di Mcqueen sul percorso da far intraprendere al suo film.
La sensazione è che la regia provi non poco imbarazzo a confrontarsi con un linguaggio prettamente (almeno ad una prima occhiata) come quello dell’action più spinto. La sequenza della rapina, vero apex narrativo di Widows viene relegata agli ultimi dieci minuti di film e si assiste ad un costante sfasamento con cui la diegesi prova a porre di fronte allo spettatore le tematiche più svariate pur di non affrontare a piene mani quel territorio all’apparenza sconosciuto, difficoltoso da approcciare, come il cinema di genere. La narrazione di Widows diventa quindi sfuggente, prende tempo e non perde occasione per dipingere un contesto politico oscuro che doppia alla perfezione l’ambiguità morale della politica contemporanea, si lancia in parentesi in cui il ruolo della polizia viene messo sotto accusa e la questione razziale viene portata all’attenzione dello spettatore, non perde occasione per rimarcare le rivendicazioni provenienti dalla dimensione #metoo che letteralmente innervano la pellicola.
Mcqueen perde tempo con la sua coperta di Linus dunque, si crogiola in quel cinema politico, civile con cui il suo pubblico ha imparato a conoscerlo, acquistando sicurezza e tranquillità operativa, forse, ma non rendendosi conto che così non fa altro che rallentare la materia narrativa, impantanadosi nella gestione complessa della troppa carne al fuoco che ha scelto di cuocere.
La regia non fa altro che attuare meccanismi che la tengano a distanza dall’anima del suo stesso film. Il punto, tuttavia, è che il costante desiderio di evasione da una sua supposta responsabilità narrativa legata al materiale di partenza del progetto diventa vero e proprio egoismo nel momento in cui si confronta da un lato con le attrici, dall’altro con le pure logiche di adattamento e di conversione di un progetto narrativo da un medium all’altro.
Anche in questo caso, la regia di Mcqueen è curatissima, l’impianto visivo è elegante, ben organizzato, le soluzioni della messa in scena, più di una volta (pensiamo al lungo piano sequenza in macchina con la confessione di Colin Farrell), stupiscono per la loro originalità progettuale. Il punto, tuttavia, è che la stessa regia diventa uno strumento che finisce per intaccare l’anima profonda del progetto.
Probabilmente Mcqueen interpreta il suo stile registico come un ulteriore territorio franco in cui rifugiarsi per evitare di corrompersi con il genere, con la commercialità nazional popolare più spicciola, tuttavia non sembra considerare quanto il suo stile freddo, calcolato, splendido ma profondamente razionale, nel momento in cui rinuncia a confrontarsi con il tessuto vivo del film lascia il cast senza una vera e propria guida finendo per incidere negativamente sull’ empatia che si potrebbe sviluppare tra lo spettatore e il personaggio. Inutile girarci troppo attorno, a te che guardi il film del destino delle quattro vedove interessa meno di zero man mano che la narrazione si sviluppa.
Ad un livello superiore, rispetto a tutto il meccanismo che sottende al film, c’è infine l’incomprensione più grossa operata da Steve Mcqueen nei confronti del suo progetto, quella che, di fatto, finisce per tagliare le gambe a Widows.
Il team creativo non sembra rendersi di fatto conto che si sta confrontando con l’adattamento cinematografico di una serie tv da sei puntate, con una narrazione profonda e approfondita che si sviluppa attorno ad una storyline che impegnerà lo spettatore per non meno di sei ore. Lo script ignora questo cambiamento di medium, questa conversione che dovrebbe, pur nella variazione del mezzo di trasmissione, conservare intatta la profondità e la complessità dello storytelling. Pare, piuttosto, che si punti a terminare il racconto il più velocemente possibile, per liberarsi di questo fardello a quanto pare insopportabile per la diegesi, a costo di sfruttare incoerenze e superficialità narrative. Ecco dunque che la progettazione del piano procede spedita, senza praticamente alcun intoppo, ecco che alle quattro donne, quattro persone assolutamente normali, nella media, imprenditrici, casalinghe, madri e solo in un secondo momento rapinatrici improvvisate (ed è proprio qui la bellezza del concept di un progetto del genere) bastano due giorni e un imprecisato numero di allenamenti per diventare quattro rapinatrici efficienti come dei Navy Seals e specializzate in tattiche di guerriglia, operazioni di intrusione, guida in condizioni estreme.
Widows è di fatto un progetto che dimostra ancora quanta arretratezza ci sia nei confronti del cinema di genere, un’occasione sprecata a fronte di un concept dal potenziale immenso e di un cast composto da alcune delle attrici più promettenti di questa generazione.