V(i)S(ioni) #1 – Dunkirk – Rinascita Di Un Autore O Crisi Di Un Prestigiatore?

V(i)S(ioni) #1 – Dunkirk – Rinascita Di Un Autore O Crisi Di Un Prestigiatore?


Un film, due redattori, due punti di vista praticamente opposti sull’opera, l’occasione di confrontarsi, di fare quattro chiacchiere tra loro ma soprattutto con i lettori. Un appuntamento che celebra il relativismo della ricezione critica dell’opera ma anche quel dibattito sano che dovrebbe animare ogni confronto attorno ad essa e che è una delle fondamenta da cui si muove lo stesso Liberando Prospero.

A inaugurare la rubrica, proprio uno dei film più discussi degli ultimi anni: Dunkirk, l’ultimo film di Christopher Nolan almeno fino a Tenet che ha diviso più di quanto avesse voluto, tra chi lo considera un ritorno del regista inglese alle atmosfere tradizionali del suo cinema e chi, invece, lo considera l’ennesimo gioco di prestigio Nolaniano costruito con grandissima cura ma altrettanto fine a sé stesso.

Al banco della difesa, per quest’appuntamento, ci sarà Alessio Baronci, sul versante della Pubblica Accusa, invece, Emanuele Bucci.

Dunkirk: La Guerra, Il Tempo, La Fiera Del PrestigiatoreDi Emanuele Bucci

C’era una volta una guerra. La formula stereotipa d’avvio delle fiabe è meno fuori luogo di quanto sembri per un film, Dunkirk, che racconta una reale pagina della storia contemporanea (la ritirata delle truppe inglesi dal porto francese di Dunkerque nel giugno 1940) in modo sicuramente inconsueto: tra le altre cose, appunto, riducendo ai termini essenziali la contestualizzazione storica, per immergere direttamente i sensi, prima ancora che la coscienza razionale, nel quadro di un conflitto dove schieramenti, valori e posta in gioco sono dati per acquisiti in partenza.

Dove ciò che conta, perciò, è soprattutto la fabula di un movimento nudo e crudo verso (e da) quella «casa» che, in linea con l’ottica anglo-centrica del racconto, è anche la parola-chiave negli stringati dialoghi dei personaggi. Ma non si tratta di una fabula lineare, come in una fiaba e in un war-movie tradizionale. Né potrebbe esserlo. Perché a narrarla non è la voce di un popolo che sta (ri)tessendo la sua memoria collettiva né il resoconto asciutto e oggettivo di una cronaca dal fronte. È invece il regista e sceneggiatore Christopher Nolan a cantare le gesta di salvatori e salvati a Dunkerque, e questo complica tutto. Nel bene e nel male.

Facciamo allora qualche passo indietro, anzi rimescoliamo un po’ i piani temporali, come il cineasta inglese ama fare in quasi tutte le sue opere. C’è stato un momento, si direbbe, in cui il percorso artistico di Nolan è cambiato, se non per il regista stesso, sicuramente per l’attenzione che buona parte del pubblico e della critica ha iniziato a posare (e investire) su di lui. È nato il “culto” di Nolan, cioè di un talentuoso narratore filmico che, nell’opinione di molti estimatori, riesce nel trucco (termine, come vedremo, non casuale) di fondere intrattenimento e sperimentazione, regole dei singoli generi cinematografici e reinvenzione degli stessi nell’ambito di una poetica (visiva e tematica) personale. E però, ci sembra, a un certo punto questa crescita di entusiasmo (e perciò di aspettative) ha finito col ripercuotersi negativamente sulle opere del regista. Come e perché è accaduto? Cambiamo di nuovo piano temporale.

E (ri)partiamo da Memento (2000). Se dovessimo nominare i capolavori del cineasta inglese, non avremmo dubbi sul concedere il primo posto a questo gioiello noir: tuttora, forse, il più audace nella struttura narrativa, costruita attraverso un concatenarsi a ritroso di sequenze-anello in cui ogni volta la successiva spiega (talvolta ribaltando le provvisorie conclusioni degli spettatori) come si era arrivati alla precedente. Ma, e qui sta il punto, tale straniante labirinto narrativo era perfettamente funzionale a restituire il cuore tematico del film. Perché la storia era quella di un uomo condannato a convivere con un disturbo della memoria a breve termine. E raccontarcela in quel modo significa(va) ogni volta non solo sorprenderci tenendo desta la nostra attenzione, ma farci sentire, con gli artifici della sceneggiatura e del montaggio, cosa si prova a vivere come se ad intervalli di pochi minuti tutto quanto nel nostro mondo dovesse ricominciare da capo. Significa(va) riflettere sulla precarietà del rapporto con la realtà e con la propria identità, sul nostro essere composti fatalmente di tracce che il Tempo scrive (e che il Tempo può cancellare) nel friabile quaderno delle nostre menti. Nolan giocava già da allora, ma era un gioco molto serio e, cosa più importante, non c’era bisogno di sottolineare che lo fosse.

Ci sono voluti sei anni e due film per rilanciare la posta agli stessi livelli, se non di più: con The Prestige (2006), Nolan (di nuovo insieme al fratello e co-sceneggiatore Jonathan) ha realizzato un’altra opera dove gli artifici narrativi non erano gratuiti ma perfettamente funzionali al tipo di storia raccontata; e, soprattutto, ha offerto una potenziale dichiarazione di poetica. L’incastrarsi pirotecnico di colpi di scena, punti di vista e piani temporali, infatti, restituiva a livello formale la storia di due prestigiatori ossessionati dalla loro arte e dalla loro rivalità, cioè dal bisogno di stupire ogni volta di più e più perfettamente dell’altro il pubblico (ossia noi). Ma soprattutto, una simile struttura rivela(va) Nolan stesso come prestigiatore “ossessionato” dalla sua arte, dalla costruzione di trucchi: ovvero, nel suo caso, finzioni (storie inventate più o meno verosimili) che riuscissero a dare al pubblico un’impressione di verità: non tanto e non solo nel senso letterale del termine (credere che quanto narrato possa accadere davvero), ma nel senso di aver toccato corde profonde della coscienza e dell’immaginario (individuale e collettivo) di chi guarda.

Saltiamo in avanti, allora: cos’è successo al prestigiatore Nolan? Ha smesso di credere nella sua arte? Tutt’altro. Forse ha cominciato a crederci fin troppo. Come i prestigiatori di cui ci narrava nel suo film, non si è più accontentato di eseguire un grande trucco, ma «il più grande numero di magia». E ne sono usciti congegni che lasciavano intravedere un immenso potenziale a tratti inceppato dalle eccessive ambizioni: c’è stato The Dark Knight Rises (2012), dove la pretesa di fondere una riflessione sulle inquietudini politico-sociali della società contemporanea con la chiusura di tutti i nodi aperti dalla saga post-fumettistica si risolveva nel più deludente dei cliché, l’esplosione devastante da scongiurare. C’è stato Interstellar (2014), dove il tempo a tratti scorreva sin troppo lentamente per gli spettatori e le due opposte e complementari retoriche (quella della fantascienza apocalittica e quella della fantascienza ottimistica) arrivavano grezze ad appesantire le suggestioni più interessanti. E poi, c’è Dunkirk. Ritorniamo al presente (o al passato?).

Anche qui, come nei precedenti due, l’ambizione sembra essere quella di realizzare «il più grande numero», almeno rispetto al genere con cui ci si sta confrontando: la volontà, cioè, di non realizzare semplicemente un valido war-movie, ma un war-movie abbastanza diverso e memorabile da riscrivere le regole e i limiti del war-movie (come Dark Knight Rises “doveva” riscrivere quelli dei cinecomics e Interstellar quelli della fantascienza). O meglio, al di là di quale fosse l’effettiva e consapevole aspirazione del prestigiatore Nolan, di sicuro è questo che buona parte del pubblico, del suo pubblico, si aspettava da lui: e quindi, coscientemente o meno, il mago raccoglie (ancora una volta) la sfida. Il trucco è riuscito? Non del tutto: e se questa non è una bocciatura in toto, per un prestigiatore (troppo) ambizioso potrebbe ben risultare tale.

Dunkirk è, come detto, un film diverso da qualunque altro etichettabile come war-movie. Ciò non vuol dire che tutto in esso sia riuscito, né che sia uno dei migliori tra quelli del suo genere. Né, soprattutto, che sia all’altezza dei già citati capolavori del regista. È un film di guerra dalla notevole cura ed efficacia a livello tecnico, dove l’investimento e la professionalità dei realizzatori danno i loro frutti nella (e grazie alla) efficacia di alcune scelte: su tutte, quella di rappresentare l’esperienza sconvolgente della guerra non solo e non tanto attraverso ciò che visivamente fa sui corpi di chi la combatte (in tutto il film non schizza una sola goccia di sangue), ma attraverso i suoni: la brutalità, il senso di pericolo imminente sta negli scoppi improvvisi e assordanti degli spari, nel rombo opprimente degli aerei, nel tonfo di una carcassa alata di metallo che sbatte in corsa sulle acque del mare, e via così. Suoni tangibili (quanto le martellanti musiche di Hans Zimmer) che rendono parimenti claustrofobici sia l’interno di una barca bersagliata e bucherellata dai fucili nemici, sia l’esterno di una spiaggia dove il cielo può rompersi a momenti nell’ennesimo attacco dall’alto.

Più problematica, ma comunque non scontata né priva di interesse, la scelta di asciugare, fin quasi ad essiccare, le coordinate consuete dei film di battaglie a sfondo storico: tra le altre cose, non mostrando mai alcun soldato dell’esercito nazista, ma solo l’azione e gli effetti dei loro armamenti. I nazisti non sono nemmeno nominati come tali ma sono più genericamente «il nemico». Ciò contribuisce a definire una rappresentazione tanto concreta nella dura materialità dei suoi corpi (umani, naturali e meccanici) quanto astratta nell’alludere potenzialmente ad altri nemici impalpabili e imprevedibili, ad altre situazioni di arretramento di un popolo e di una civiltà che possono diventare occasioni di rivalsa: ciò che ha portato alcuni a leggere il film addirittura come un’allegoria dell’Europa contemporanea arroccata, contraddittoria e divisa ma ancora potenzialmente in grado di riscattarsi nella ritrovata unità.

Al di là del merito di queste letture, è innegabile che esse siano favorite dalla straniante essenzialità dell’ottica di Nolan, che levita quasi nell’onirico (o, dicevamo prima, in un paradossale fiabesco) in sequenze come quella, notevole, di apertura: con i soldati che vagabondano per la strada spopolata della città immersa nel silenzio e inondata di volantini fluttuanti, irreale momento di sospensione spezzato dal nemico presente ma invisibile.

Il rischio di una simile interpretazione della guerra al cinema è quello di appiattire le complessità e specificità della realtà storica ai minimi (o massimi) termini di un discorso rappreso in simboli (fin troppo) conservativi e rassicuranti: certo aiutati qui dal (ri)trovarci nella battaglia contro il Male (davvero assoluto) del totalitarismo nazi-fascista. Ma forse, più che di restaurare linee nette e quasi metafisiche tra buoni e cattivi, il war-movie contemporaneo avrebbe bisogno di rappresentazioni a misura delle criticità e incertezze del nostro tempo, come quella dell’Iraq frammentato nella babele (social)mediatica di Redacted. Ma che la strada intrapresa da Nolan piaccia, prevedibilmente, (molto) di più al mainstream anglosassone lo ha dimostrato il più recente 1917 di Sam Mendes: altra rarefazione della Storia a paesaggio (onirico-fiabesco) di simboli, e ancora più intrisa di (vecchia) retorica rispetto a Dunkirk.

Ma il vero problema di quest’ultimo è un altro: e cioè che la forza (e lo sforzo) tecnico come gli spunti comunque non banali, al dunque, non trovano terreno favorevole nel congegno narrativo del prestigiatore: questi non resiste nemmeno stavolta alla tentazione di imprimere al film il suo marchio (o piuttosto, ormai, la sua maniera), la destrutturazione del tempo lineare, costruendo un congegno dislocato su tre diversi scenari e piani temporali che scorrono a velocità differenti per poi arrivare (parzialmente) a sovrapporsi nel momento-clou del salvataggio. Ma quello che dovrebbe essere il pezzo forte del trucco si rivela, a ben guardare, il principale limite della macchina: da un lato, infatti, l’alternarsi dei piani e delle velocità tende più spesso a confondere anziché suggestionare. Ma soprattutto, la costruzione cervellotica non sembra legarsi strettamente a un senso specifico che, come tale, potrebbe e dovrebbe veicolare alla luce della storia narrata.

Qual è, in altri termini, il significato di questo ennesimo labirinto? Riflettere anche a livello formale sulla percezione del tempo aveva più di un senso, come abbiamo visto, in un film come Memento o alla luce del discorso metatestuale di The Prestige. Come l’aveva, del resto, anche spingendosi ai limiti dello spazio-tempo (Interstellar) o nei grovigli di sogni dentro altri sogni (Inception).Ma qui, al contrario, non riusciamo a trovargli una motivazione (e una giustificazione) altrettanto forte che in altre opere. E se l’arte è produzione di significati attraverso l’uso della tecnica, qui verrebbe da dire che allo sforzo tecnico non corrisponde un’adeguata ricchezza e complessità di significati- al di là di una generica (e, di nuovo, retorica) idea che in alcuni momenti della Storia le percezioni sempre relative e soggettive del tempo paiano incontrarsi in eccezionali momenti di unità.

Peccato, inoltre, perché per seguire il suo audace ma in ultima analisi freddo e invadente meccanismo narrativo, Nolan è obbligato a togliere spazio (o meglio: tempo) ai fili potenzialmente più interessanti dell’affresco (il contrasto tra punti di vista e generazioni all’interno della piccola imbarcazione civile) in favore di altri più scialbi e prevedibili (il pilota eroico in difficoltà interpretato da Tom Hardy). Sembra paradossalmente di essere tornati al film d’esordio di Nolan, quel Following dove il puzzle di piani temporali dava l’impressione di un gioco virtuosistico finalizzato unicamente a rendere più originale e movimentata una trama noir mediamente contorta per gli standard del genere.

Ancora una volta, quasi vent’anni dopo, sembra che Nolan abbia ritenuto la sua storia (o meglio, in questo caso, la Storia) non abbastanza potente in se stessa, o non abbastanza nelle sue corde, da meritare di essere raccontata senza sovrapporre a freddo il congegno che faccia riconoscere a tutti i costi la mano del regista. Restano la tensione, la suggestione e gli elementi originali di uno spettacolo che ha il coraggio di (provare a) essere nuovo e personale; ma continuiamo ad avere nostalgia del prestigiatore che, nei suoi momenti migliori, metteva al primo posto la meraviglia del trucco, piuttosto che la mano dell’esecutore. L’evento del prestigio, piuttosto che la pretesa di esso.

Dunkirk – Sul Ritorno All’Uomo Nolaniano – Di Alessio Baronci

Christopher Nolan è tornato a casa ma l’ha fatto in punta di piedi. Probabilmente tutto inizia da Interstellar ma non nel modo in cui uno si aspetterebbe.

Vero è che Interstellar è considerato dai più come il primo passo effettivamente falso di Nolan, ma è altrettanto vero che pochi riescono a spiegare esattamente cosa non funzioni in quel film. Meglio, praticamente tutti accusano il film di essere lento, pretenzioso, ultraretorico ed eccessivamente legato ad un’aura sentimentale che finora non sembrava interessare al regista ma così facendo, probabilmente, non fanno altro che rimanere sulla superficie delle cose.

Io stesso mi sono accontentato della prima spiegazione che il mio cervello aveva partorito per giustificare l’impatto tiepido che il film aveva avuto su di me. In sostanza, ho archiviato la pratica con Interstellar definendolo un buon film che sarebbe potuto essere straordinario se fosse terminato subito prima del salto finale nel buco nero e del relativo ultimo atto tutto buoni sentimenti e melassa ma in realtà il discorso è molto più profondo di così.

Il punto è che Interstellar va pesantemente in rotta con la morale antropologica di Nolan, e c’è voluto Dunkirk per farmelo capire.

Ogni film è al contempo una rappresentazione del reale ed una lettura dello stesso (o di una parte di esso) che ne dà la squadra creativa che la pellicola la crea.

Si riflette sul reale ma si riflette anche su un’idea di uomo, di umanità, che di volta in volta viene declinata dal Cinematografico.

Al centro dei film dell’ultimo periodo di Clint Eastwood c’è l’uomo comune, che fa grandi cose, riesce a raggiungere grandi traguardi, a salvarsi la vita o anche solo ad avere la meglio su un antagonista grazie solamente alle sue abilità e capacità (pensiamo a quanto accade in Sully o al cortocircuito nato in 15:17, per fare solo qualche esempio);

Mel Gibson lavora invece su un concetto di umanità volta al sacrificio e che raggiunge la propria compiutezza solo quando entra in contatto con il trascendente.

Ora, sebbene Nolan sia spesso criticato sul piano della forma e accusato di girare film perfetti sul piano estetico ma straordinariamente vuoti, freddi, quando si ragiona sul range di sensazioni che stimolano le sue pellicole in chi guarda, è innegabile che la sua idea di uomo è estremamente affascinante: il protagonista dei film di Nolan è in effetti un eroe che flirta con un tipo di oscurità, con una cupezza che amplifica la sua solitudine.

L’eroe, ogni volta, arriva in fondo al suo viaggio, riesce a raggiungere i suoi scopi ma la sensazione è che egli abbia perso qualcosa nel percorso, e si sia ritrovato impoverito, indebolito da quel confronto con la negatività.

A sovrastare l’uomo Nolaniano non c’è poi né la sicurezza delle sue abilità e della sua umanità (come in Eastwood), né la certezza che solo la massima vicinanza a Dio può darti (come in Gibson), piuttosto un elemento inesorabile, spesso il “tempo”, oggettivato (il cinema di Nolan è in fondo uno studio sul tempo, sul suo trascorrere e sulla sua percezione, pensiamo ad Inception, ma anche a Memento e allo stesso Interstellar), o anche solo una minaccia, più o meno velata, più o meno identificata a cui il protagonista deve opporsi (The Prestige è la corsa contro il tempo di un mago per scoprire il trucco del suo rivale, Insomnia racconta la caccia al serial killer, ma anche ogni singolo film della trilogia di Batman si conclude, come da tradizione dei migliori blockbuster d’azione con una corsa che punta a scongiurare l’attacco finale del terrorista di turno).

Stando così le cose, il protagonista dei film di Nolan è un eroe che ad un occhio esterno fatica ad incarnare il suo status ma è soprattutto un personaggio che si confronta con un profondo senso di solitudine che egli non abbraccia per scelta ma in cui si ritrova a causa delle sue traversie.

A margine, non è un caso, poste queste premesse, che Nolan sia riuscito a restituire allo schermo un Batman così convincente. Batman è forse uno degli eroi più ambigui del panorama contemporaneo. Non ha superpoteri, ha senz’altro delle abilità straordinarie ma è altrettanto indubbio che queste abilità sono coadiuvate dal fatto che Bruce Wayne è un miliardario e la ricchezza è un fattore, quando si parla di poteri o di capacità, forse più difficile da giustificare rispetto ad un fulmine che ti colpisce o di un ragno radioattivo che ti morde.

Un’ambiguità di fondo che Nolan abbraccia tra l’altro proprio nella chiusura dell’ultimo capitolo della trilogia, con Batman che non continua a proteggere la città, non muore ucciso dal villain di turno in un estremo atto di sacrificio ma piuttosto fa perdere le sue tracce e si ritira a vita civile compiendo forse la scelta più vigliacca possibile.

E allora, forse è proprio per questo che Interstellar alla fine non mi ha convinto. Perché inizia e procede in ossequio all’antropologia Nolaniana (un eroe parte in viaggio per scongiurare una catastrofe imminente mentre lo scorrere del tempo non fa altro che allontanarlo sempre di più dai suoi affetti, dalla sua famiglia, fino a farlo sprofondare in una tremenda solitudine), ma finisce ribaltando e distruggendo tutte le premesse iniziali. Quell’amore universale che è il centro di tutto il film è indubbio che stoni con una filosofia, con un approccio che fa della solitudine, dell’oblio, della realtà tinta a toni di grigio che è la (rispettabilissima ed interessante) base della poetica autoriale di Nolan.

In questo senso, Dunkirk funziona perché si pone come una sorta di ritorno consapevole ed aggiornato all’antropologia Nolaniana.

Partiamo da ciò che salta più facilmente all’occhio. I soldati di Dunkirk non sono gli eroi patriottici del cinema classico, ma non sono neanche gli antieroi tormentati e cinici del Vietnam. Sono ragazzini tra i venti ed i trent’anni capitati lì per caso, a cui il destino ha affibbiato un’arma in mano e che l’opinione pubblica probabilmente considererà non più gli eroi che devono difendere la patria dall’incubo nazista ma degli sporchi vigliacchi proprio perché in ritirata da un teatro di guerra. Torna, ben tematizzato, il motivo dell’eroismo ambiguo ma torna, soprattutto, il motivo della solitudine e dell’abbandono.

La pervasiva sensazione di essere soli, di essere appena stati abbandonati dal proprio paese è il vero e proprio motore che muove il film e le azioni dei vari personaggi in gioco (e la sensazione che Dukirk sia un survival movie alla Revenant mascherato da War Movie è fortissima), ma funziona anche come strumento per destrutturare, ridefinire, il “racconto di guerra” al cinema.

In Dunkirk la Seconda Guerra Mondiale non viene raccontata, non come ci si aspetterebbe fosse raccontata almeno.

Il conflitto non è altro che una eco lontana, il prodotto di un continuo frazionamento che porta il film a concentrarsi non tanto sull’epicità delle battaglie campali alla Spielberg o alla Eastwood quanto su tanti piccoli confronti, tante piccole guerre più contenute, ma al contempo estremamente personali. Dunkirk è il racconto della guerra di due soldati bloccati sulla spiaggia che tentano di salire su una delle navi per l’evacuazione saltando la fila; è il dipanarsi della battaglia contro l’acqua che sale dai boccaporti dell’equipaggio di una nave in fuga da Dunkirk appena colpita da un siluro; è la personale lotta contro sé stesso ed il suo avversario ingaggiata da un pilota inglese che vuole coprire i compagni sulla spiaggia, abbattere il nemico e nel frattempo tornare a casa prima che il carburante nel serbatoio finisca; Dunkirk è la guerra disperata condotta da un uomo comune contro il mare per aiutare la propria patria ed infine è la paura raggelante di cui è preda un gruppo di soldati colti da un agguato nemico nella pancia di una nave arenata sulla spiaggia. Tante piccole guerre personali che vanno a comporre il mosaico di una delle battaglie cardine della Seconda Guerra Mondiale.

Guerre da cui, tuttavia, emergono amplificati quelle sensazioni di solitudine ed isolamento che, come abbiamo visto, sembrano essere degli elementi fondamentali della poetica di Nolan. Ognuno degli agenti in gioco, sia esso un singolo o un piccolo gruppo è straordinariamente solo a combattere la sua battaglia ma soprattutto è isolato perché la memoria della sua azione finirà inglobata nel ricordo della battaglia più grande (si ricorda Dunkirk, non si ricorda mai la storia dei soldati alleati bloccati da una pattuglia nazista nella stiva della nave).

Allargando il discorso, Dunkirk sembra essere il luogo in cui le basi dell’antropologia Nolaniana arrivano a compimento e raggiungono un nuovo grado di maturazione attraverso la reciproca influenza ed amplificazione.

L’eroe di Nolan, l’uomo solo, abbandonato a sé stesso e che finisce per essere assorbito da quella stessa oscurità che egli cerca di contrastare qui si moltiplica nei volti di decine di soldati alleati, ognuno caratterizzato dal contrapporsi ad un Evento Ineluttabile che preme su lui con forza straordinaria (sia esso il carburante del caccia che finisce o l’acqua che sale dai boccaporti poco cambia…). E se è vero che il tessuto tematico raggiunge nuovi livelli di profondità grazie alla risonanza, anche la vera e propria struttura, ciò che regge il film, finisce per approfondirsi. L’Evento Ineluttabile si muove in funzione dello scorrere del tempo, questo è ovvio, ma non è troppo azzardato dire che Dunkirk è probabilmente il prodotto più raffinato della ricorrente ricerca sulla percezione del tempo a cui Nolan si dedica fin dal primo film. Il film racconta tre momenti dell’evacuazione di Dunkirk che si svolgono in tre parentesi temporali differenti e conchiuse che entrano in contatto per un solo istante praticamente nel climax della pellicola stessa. Tempo come motore della storia dunque, ma tempo anche come sostanza e struttura della storia stessa, in continuo gioco di specchi che porta il primo piano a riflettersi sul secondo e viceversa.

Dunkirk è il ritorno a casa di Nolan, oltreché, probabilmente, il film almeno fino a Tenet ha chiuso una prima parte della sua ricerca ma, se non ci si volesse concentrare sui simboli, sulle tematiche, sui corsi e ricorsi nello stile del regista inglese forse basterà sapere che se si cerca un film che tratti la Seconda Guerra Mondiale in un modo assolutamente anti-hollywodiano e minimalista, esattamente come nessuno aveva (ancora) mai fatto, Dunkirk è il film che probabilmente risponderà all’appello.

Redazione Liberando Prospero

2 pensieri su “V(i)S(ioni) #1 – Dunkirk – Rinascita Di Un Autore O Crisi Di Un Prestigiatore?

  1. Due splendide analisi di un film potentissimo (a mio avviso). E’ sempre affascinante leggere opinioni contrapposte su un film.
    Spero di continuare a leggere questa bella rubrica!

    1. Grazie mille, Andrea: lietissimi di sapere che questo nuovo spazio di confronto ti piaccia. Ci saranno certamente nuove “puntate”, stay tuned!

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