Da 5 Bloods – Il Vietnam Di Cartapesta Di Spike Lee
Siamo nella giungla Vietnamita e una squadra della polizia speciale locale (ma saranno veramente i buoni o piuttosto sono dei narcos Laotiani o, ancora meglio, gli sgherri del broker francese Desroche?) intercetta improvvisamente i cinque veterani neri americani che una manciata di ore prima erano riusciti a recuperare decine di lingotti d’oro requisiti alla C.I.A. e che ora (almeno fino a prova contraria) dovranno servire a finanziare il movimento di liberazione dei neri in patria.
I vietnamiti sanno perfettamente del contenuto degli zaini dei veterani, ma ciò che coglie i protagonisti di sorpresa è il modo in cui candidamente gli agenti intimano loro di consegnare la refurtiva, non perché si tratti effettivamente del prodotto di un reato ma perché, semplicemente, l’oro appartiene ai Vietnamiti ed è a loro che deve essere restituito.
Le rimostranze dei veterani, che mettono in chiaro quanto l’oro serva a finanziare le rivolte del popolo nero americano contro l’establishment, in realtà impattano contro la realtà dei fatti che i Vietnamiti non perdono troppo tempo a mettere in chiaro: i lingotti devono rimanere in Vietnam, appartengono ai Vietnamiti e se i veterani non comprendono questo dettaglio vuol dire che non comprendono neanche quanto essi stessi si stiano comportando come gli americani imperialisti che dicono di voler combattere.
Forse, Da 5 Bloods, l’ultimo Joint di Spike Lee potrebbe riassumersi in questa sequenza, che ne cattura non solo l’anima ma anche l’approccio volutamente ambiguo con cui Lee si confronta con la materia e i suoi personaggi. Alcuni lo hanno già definito il progetto che meglio dialoga con le istanze della seconda ondata del movimento Black Lives Matter e che riesce per questo a intercettare al meglio lo spirito della contemporaneità ma proprio quel passaggio che abbiamo provato a sintetizzare dovrebbe dirci molto di quanto Spike Lee in realtà scelga di muoversi su una griglia di spunti, tematiche, argomentazioni squisitamente sui generis. In questo senso, se è vero che Da 5 Bloods dialoga proficuamente con lo Spirito Del Tempo è indubbio che lo faccia in un modo liminale, personale, a tratti imprevisto.
Da 5 Bloods, potremmo dire, è il luogo in cui il regista fa i conti con il concetto stesso di verità e con tutto ciò che può essere riferibile ad essa, nel momento in cui quella stessa verità, che vuol dire anche concretezza, tangibilità, misurabilità, fa i conti con una contemporaneità dominata da dati liberamente manipolabili, capaci di generare nuovi testi e di riscriverne contemporaneamente di nuovi, con un momento storico in cui, anche senza riflettere sulla pervasività del digitale nella nostra vita quotidiana, a dominare è un generale relativismo culturale in cui tutto va rivisto, riletto, reinserito in coordinate interpretative sempre diverse (in cui “c’è bisogno di contestualizzare” per citare una questione spinosa di qualche giorno fa).
Da 5 Bloods muove da questi estremi e anzi sembra incarnarsi attorno alla precisa volontà di Lee di mostrare la capacità di falsificare la realtà della macchina cinema, in termini di Generi, di Immaginario certo, ma anche di rappresentazioni di particolari gruppi etnici o istanze sociali come quelle del popolo nero proprio in tempi di Black Lives Matter.
Il Vietnam di Spike Lee sembra germinare da quell’aforisma di Slavoj Zizek, che grossomodo afferma che l’unico modo per affrontare e superare un trauma, soprattutto uno di immensa portata, quasi sconquassante, come una guerra così tragica sia quello di trasporlo nella dimensione cinematografica per ridurre l’aggressività di quello stesso avvenimento sul nostro inconscio.
Il contesto in cui si muovono i cinque veterani, le loro azioni, le loro interazioni, il modo in cui lo spazio risponde alla loro presenza non negano mai e anzi amplificano il loro debito con un immaginario consolidato nato all’intersezione tra i cliché dei Vietnam Movies e i caratteri della guerra del Vietnam mediati dall’inconscio collettivo americano.
I flashback non nascondono mai le radici eminentemente cinematografiche che li innervano, tra riprese in 16mm, formati dell’immagine ristretti, epica eroica a grana grossa, colonna sonora magniloquente e volutamente invasiva e personaggi che, non sottoposti volutamente ad un de-aging, sono incerti se essere protagonisti di una storia reale o comprimari per un racconto di cartapesta. I momenti in cui la struttura narrativa comincia seriamente a vacillare puntellano però maggiormente le lunghe sequenze al presente in cui si prova ad attualizzare gli stilemi tipici del Vietnam Movie solo per mostrare il decadimento più o meno latente delle coordinate di un immaginario consolidato, che letteralmente non ha più il passo per raccontare una storia di questo tipo o per rifarsi alle istanze inconsce legate al trauma di un intero popolo: ce lo dicono i movimenti malfermi e appesantiti che caratterizzano i veterani nelle sequenze più dinamiche, perfetto correlativo oggettivo di un’estetica che ha scoperto tutti i suoi limiti rappresentativi in una sola volta, ce lo dicono i rimandi all’Apocalisse Coppoliano, letteralmente un’entità a metà tra un serbatoio apparentemente inesauribile di spunti e una Coperta di Linus da esporre ironicamente per rendere evidente l’azione di sostegno, di aiuto ad un immaginario che “manca” nell’esprimere tutta la portata della tragedia.
La guerra diventa dunque un crogiuolo artefatto e mercificato, assimilabile proprio alla locandina di Apocalypse Now che fa capolino nel bar o alla Cavalcata Wagneriana che esplode all’inizio del viaggio dei protagonisti sul Mekong (in fondo un nuovo viaggio, un altro viaggio, come quello del film di Coppola).
Partita dal tessuto filmico, la spinta demistificatoria finisce per coinvolgere, ovvio, la rappresentazione delle istanze della minoranza nera nell’America contemporanea.
Intelligentemente Spike Lee sceglie in questo caso la strada più complessa e forse meno rassicurante per il suo pubblico. L’identità, la cultura black vengono tirate in causa, messe tra parentesi, di fatto problematizzate seguendo l’esempio di tanta arte contemporanea (pensiamo ai dischi dei Run The Jewels).
Dalle argomentazioni appare chiaro quanto il regista si stia rivolgendo ad un pubblico molto più ambiguo di quanto vorrebbe considerarsi, preda del vittimismo, a tratti ipocrita e se da un lato egli non cede di un passo sulla necessità dell’emancipazione dei neri dai soprusi dei bianchi, dall’altro, semplicemente, non perde occasione per rimarcare quanto quegli stessi neri debbano fare molto di più di quanto fanno ora per ottenere, quasi guadagnarsi, quella liberazione.
Spike Lee segnala con una linea di demarcazione forte il divario generazionale tra gli animatori delle rivolte sociali di ieri e di oggi.
Già gli insegnamenti di Stormin’ Norm sembrano lettera morta alle orecchie dei giovani soldati che raramente comprendono la profondità dei suoi messaggi e che sono chiaramente distanti anni luce dagli esempi virtuosi di atti di ribellione dei neri che li hanno preceduti raccontati proprio dal loro caposquadra.
Ora, cinquant’anni dopo, quegli stessi soldati non possono che porsi come goffi rappresentanti di un’azione di rivolta sociale: alcuni di loro sono diventati capitalisti, altri sono preda dell’avidità, uno è anche un convinto repubblicano di stampo Trumpiano, nessuno si rende conto di quanto sia avido né di quanto, come si è detto, l’azione, l’operazione di cui ha deciso di far parte, non sia troppo dissimile da quella che portò gli Stati Uniti ad invadere il Vietnam.
Non è un caso, a margine, che i flashback sul passato dei protagonisti siano così artefatti, finti, figli di una rappresentazione in cui loro, i neri, sono bloccati alla mercé del pubblico prevalentemente bianco, in fondo altro simbolo di un destino segnato se non si sceglie di agire.
Qualche speranza, forse, Spike Lee la ripone nei giovani, nel figlio insegnante di Paul, educatore delle nuove generazioni, nei giovani attivisti della Black Lives Matter a cui andranno i soldi in ultima battuta.
E dunque, in profondità, Da 5 Bloods rilegge le rivolte contemporanee alla luce di un più complesso scontro generazionale in cui qualcuno, in passato, ha sbagliato i conti, ha ceduto e ha lasciato un panorama di rovine da cui i più giovani sono costretti a ripartire.
È un film denso, a tratti straripante, sicuramente in più punti goffo, rallentato dal proverbiale didascalismo del regista ma anche caratterizzato da problemi non rispondenti alla produzione, piuttosto diretta conseguenza di una difficile lavorazione che ha visto Netflix porre più volte i bastoni tra le ruote alla regia, ma Da 5 Bloods, proprio per questo, non può essere accantonato come un progetto minore della seconda fase del cinema di Lee soprattutto perché tali problemi di lavorazione in fondo non vanno ad inficiare il dialogo con il dispositivo e le istanze della contemporaneità che sono il centro delle riflessioni del regista.
Ricollegandoci alla riflessione iniziale, forse Da 5 Bloods diventa veramente un prodotto degno di nota nel momento in cui si rende conto del modo in cui rilegge e rilancia lo Zeitgeist: non dando nulla per scontato delle sue componenti essenziali, continuando piuttosto a tenere tutto in discussione, ponendosi dalla parte di uno schieramento ma non cedendo mai ad esso in maniera acritica.