The Hate U Give – Racconti Di Formazione Per La Generazione Black Lives Matter
Inaspettatamente, non è così facile avvicinare e confrontarsi con un film come The Hate U Give.
Questo perché la pellicola di George Tillman Jr sembra approcciare in modo del tutto particolare quel contesto socioculturale in ebollizione che si raccoglie attorno al Black Pride, al Black Lives Matter e alla questione razziale afroamericana negli U.S.A. che è al centro di numerosi dibattiti negli ultimi tempi.
Sfruttando il racconto di formazione attorno a cui si articola, The Hate U Give finisce per porsi come uno dei rari progetti che sceglie di non svilire le sue istanze sociali ma neanche di darle per scontato, applicando su di esse un’analisi critica e distaccata che si rivolge non solo alla popolazione afroamericana che prende posizione in prima persona nella protesta ma anche a quei bianchi che, con malizia o in buona fede, semplicemente non sanno ancora approcciare nel giusto modo il contesto in cui sono inseriti.
E allora ecco che il film, ecco che la storia, tragica ma al contempo piena di speranza di Starr, diventa cartina tornasole volta a ribaltare ogni singola opinione, preconcetto o pregiudizio che lo spettatore può avere nei confronti della vicenda raccontata o delle parti in gioco, ecco che la creatura di George Tillman Jr diventa l’arma, o, ancor meglio, lo strumento, attraverso cui, con correttezza e solidità argomentativa, si analizzano le istanze della comunità black americana e quelle dei bianchi che finiscono per subirne il contesto in evoluzione, portando alla luce limiti e ipocrisie di entrambi gli schieramenti.
Quasi a voler fare il punto sullo stato dell’arte in merito a ciò che è accaduto nel tessuto sociale americano durante gli ultimo otto anni e, soprattutto, riguardo alla sua rappresentazione su schermo, la regia dunque non fa altro che prendere le parti in gioco e privarle dei riferimenti con cui sono solite essere identificati dagli spettatori, trattandole come entità malleabili, misurabili, confrontabili.
Tutto si può analizzare, tutto si deve indagare, secondo George Tillman Jr, per comprendere, per migliorarsi, perché la realtà REALE, intesa come quel contesto non mediato dall’ideologia o anche solo dai media è molto più complessa di quanto appare.
E allora ecco che ogni singolo elemento su cui si articola il film viene tirato in causa, ecco che ogni singola linea di forza viene destrutturata e analizzata in ogni sua parte, a partire dal sistema dei personaggi.
La protagonista Starr è forse uno dei personaggi femminili più complessi di questa tendenza del cinema contemporaneo americano. Se in lei alberga l’innocenza della giovane età, se i suoi atteggiamenti, i suoi comportamenti, invitano subito all’empatia lo spettatore, ciò non vuol dire che questo stesso attaccamento, questa semplice attenzione nei confronti del destino di uno dei personaggi, non venga di fatto processato dalla diegesi che ci invita ad avvicinarci a lei con particolare attenzione.
Proprio perché Starr è apertamente e volutamente molto più ambigua rispetto a personaggi a lei consimili. Perché è giovane e istintiva, certo, ma anche e soprattutto perché ci stiamo confrontando con una delle rarissime protagoniste borghesi (meglio, imborghesite) di film di questo tipo. Starr inizia il suo percorso ancora indecisa sulla sua natura profonda. Nata nel ghetto ma piacevolmente affascinata anche da quel contesto socioculturale bianco, ricco, superficiale e che si dedica, in modo più o meno conscio ad una continua appropriazione culturale nei confronti della Black Culture a inizio film quasi rinnega la sua stessa natura e sceglie, di fatto, di girarsi dall’altra parte ogniqualvolta un bianco a lei vicina finisce per entrare in contatto con l’identità afroamericana o prende parte ad una manifestazione dedicata alle minoranze.
Starr rinnega sé stessa e la sua identità alla ricerca di quella conformazione che in cuor suo sa che non potrà mai ottenere e diventa, all’interno del meccanismo del film, il correlativo oggettivo con cui prende corpo tutta quella fetta di popolazione black più o meno moderata che semplicemente non si ribella alla condizione presente proprio perché troppo impaurita di rivoluzionare così profondamente la sua condizione sociale inimicandosi la maggioranza bianca con cui solidarizza, quella stessa fetta moderata che a quanto pare, almeno nella visione, della diegesi, dell’autore, sembra essere una delle resistenze che impedisce ai neri di raggiungere la loro piena autodeterminazione.
Discorso forse ancora più complesso George Tillman Jr lo organizza proprio attorno alla maggioranza bianca e al suo modo di entrare in contatto con la tragedia dell’uccisione di Khalil. Il modo in cui la diegesi si approccia ai bianchi borghesi è, per certi versi, stupefacente. La diegesi non li accusa mai apertamente di strumentalizzare la morte di un nero ai loro fini, non pone mai chiaramente in luce la loro superficialità nell’avvicinarsi alla cultura nera, anche le riflessioni di Starr, narratrice interna, in questo senso, si fanno sentire solo raramente e, almeno all’inizio, emerge dalle sue parole un alone quasi giustificatorio.
Ciò non toglie, tuttavia, che il sistema film rinunci a prendere posizione, anche se solo indirettamente, sulla questione. Molto di ciò che lo spettatore vede viene infatti processato dalla diegesi che, anche solo attraverso lo zoom su un particolare, anche solo attraverso il rallentamento di una sequenza, assumendo il punto di vista di Starr o in modo del tutto indipendente da lei pone alla nostra attenzione questo o quel comportamento del bianco di turno, portandoci a chiedere se davvero egli sia seriamente colpito e solidale con la vicenda di Khalil o se questo è solo un altro avvenimento utile a portare acqua al mulino di questo o quello schieramento politico, se cioè ci troviamo di fronte ad una tragedia da strumentalizzare più o meno direttamente ai suoi intenti.
È a noi che, in questo caso, il film parla, lasciando proprio a noi spettatori il peso di andare ad analizzare nuovamente e con ritrovata freddezza, quella volta in cui abbiamo solidarizzato con una minoranza. Lo abbiamo fatto perché realmente sconvolti dalla vicenda, perché volevamo cambiare le cose o solo perché così, partecipando a questa o a quella manifestazione, ci saremo saltati una giornata di lavoro.
E allora The Hate U Give ha il suo interesse proprio nel suo porsi come un nuovo modo di intendere il film di formazione, l’operetta morale, il progetto sociale e didattico. George Tillman Jr organizza il suo film puntando l’attenzione su una serie di buone pratiche per i futuri atti di resistenza sociale.
Come deve comportarsi l’oppresso? Come deve sodalizzare nel modo più giusto colui che desidera appoggiarlo senza cadere nella superficialità più becera? Come si arriva all’obiettivo proprio ora che la guerra sembra essere imminente? Il film risponde a queste tre domande fondamentali e lo fa attraverso tutte quelle strategie tipiche dei progetti per certi versi “educativi”, piegando il visivo alla sua tesi (e allora ecco che la splendida fotografia illumina in maniera più calda gli ambienti del ghetto e più fredda e asettica gli spazi occupati dai bianchi borghesi) e alleggerendo la narrazione con delicate parentesi comiche, per evitare che lo spettatore medio perda il filo della questione.
Proprio in questo, proprio nel suo essere volutamente opera formativa, istruttiva, il progetto di George Tillman Jr stacca di misura le altre pellicole coeve. Perché al di sopra di tutte le argomentazioni fin qui esposte The Hate U Give indaga proprio la forma in cui si portano in scena (e sono stati portati in scena fino a questo momento) elementi come il ghetto e i suoi abitanti.
Garden Heights, il ghetto in cui vive Starr è un luogo luminoso, caldo accogliente, assolutamente pacifico, abitato da persone disponibili, altruiste, coraggiose e sempre pronte a difendere chiunque fosse in difficoltà. La stessa atmosfera la protagonista sembra respirarla nella sua famiglia, appoggiata e amata com’è dai genitori, scaldata dall’affetto dei suoi fratelli.
Proprio questa attenzione nella rappresentazione dei rapporti umani, proprio questo continuo rimarcare la dolcezza e la bontà d’animo dell’umanità che popola il ghetto porta lo spettatore a confrontarsi con un calore umano sempre più raro da trovare nel cinema contemporaneo, proprio questo rispetto, questo affetto nel rappresentare i vari tipi umani che popolano Garden Heights sembra essere l’ultimo punto programmatico su cui si sofferma l’attenzione della diegesi. Come se si volesse annotare che per partire alla conquista dei propri diritti non dobbiamo solo riscoprire e accettare le nostre radici ma è necessario anche non avere paura di entrare in contatto proficuo e solidale con l’altro, in un afflato di profondo ottimismo verso il prossimo.
Proprio per questo, per la sua maturità, originalità e soprattutto per il coraggio e l’abilità di George Tillman Jr di raccontare e affrontare questioni così delicate con classe e senza mai scadere nella retorica, The Hate U Give è probabilmente il nuovo standard per i racconti di formazione nel complesso contesto che stiamo vivendo.
Alessio Baronci