Per una prospettiva (neo)femminista: “Revenge” e la rappresentazione del corpo femminile
Qualcosa sta cambiando nel modo in cui l’arte, l’industria dello spettacolo e le diverse forme di narrazione stanno ripensando e riformulando il ruolo della figura femminile. Ma se determinate istanze erano presenti ben prima che eventi di forte rilevanza mediatica e sociale (il processo contro Harvey Weinstein; gli scandali sessuali legati a personalità dello spettacolo; la nascita del Time’s Up e del #Metoo; una maggiore sensibilità unita ad una netta presa di posizione contro l’abuso e la violenza di genere) segnassero il periodo storico recente, mai come oggi la questione ha assunto una centralità sempre più evidente. Per questo è interessante interrogarsi sulle modalità in cui il cinema e le arti in generale siano sempre più influenzati da questioni legate al nuova prospettiva femminista e a quei modelli di rappresentazione e narrazione femminile all’interno dell’immaginario contemporaneo. Se questa nuova prospettiva sta attraversando sempre di più il cinema statunitense e le sue varie tipologie di racconto, persino nell’ambito dei Blockbuster (pensiamo solo a quanto stanno facendo la Marvel e la Dc con le eroine dei propri universi narrativi) e dei reboot (pensiamo a Ocean’s eight o al recente Ghostbusters); diviene allora utile analizzare il caso di un piccolo film di genere che ha avuto un forte passaparola sin dalla presentazione al Festival di Torino del 2017 e che, anticipando un po’ i tempi, è stato da subito accolto come una sorta di titolo-manifesto contro quella mentalità sessista che vede nella donna un oggetto di piacere sottomesso al potere maschile. Il film di cui sto parlando è Revenge di Coralie Fargeat.
In questo caso il nodo cruciale della riflessione va a toccare non solo le modalità in cui il soggetto femminile si relaziona con la propria immagine e come viene messo in scena, ma la natura del genere e come esso dialoghi con la contemporaneità.
Al primo impatto, merito anche di una campagna pubblicitaria costruita ad hoc, Revenge è il chiaro tentativo di una donna di appropriarsi delle dinamiche del rape&revenge (un genere spesso associato al piacere maschile) e farle proprie, ma andando oltre la superficie, l’esperimento della Fargeat compie un ribaltamento che è soprattutto legato a specifiche teorie di rappresentazione e definizione dello sguardo, disposto ad aprire una discussione sull’evoluzione del personaggio femminile all’interno del genere, usando il “corpo” come vettore ideale del discorso.
La vicenda segue il più classico degli sviluppi tracciati da quel filone comunemente associato al genere rape-revenge: di solito, c’è un personaggio femminile che subisce uno stupro o altre forme di sadismo più o meno prolungate e poi avviene qualcosa che farà scatenare la reazione vendicativa, non di meno brutale, nei confronti dei suoi carnefici (da parte della stessa protagonista o da figure secondarie comunque legate alla vittima).
Jennifer è invitata a trascorrere un piacevole weekend a base di sesso e svago insieme all’amante Richard, un ricco uomo d’affari sposato e con figli, in una villetta persa chissà dove nel deserto del New Mexico. La ragazza è presentata immediatamente come una giovane disinibita e un po’ ingenua, una lolita desiderosa di farsi notare e col sogno di trasferirsi a Los Angeles per una carriera da attrice. Appena Jen scende dall’elicottero, le inquadrature a grandangolo mettono a fuoco le sue gambe, i glutei e il seno, riducendola a parti di un corpo feticizzato, oggettivato.
In questo senso, la Fargeat sembra quasi richiamare alla mente i saggi di Laura Mulvey e, più in generale, quanto studiato all’interno della Feminist Film Theory, ponendo la protagonista all’interno di quelle dinamiche dello sguardo teorizzate negli anni ’70, le cui analisi portano a vedere la donna sullo schermo come oggetto di piacere (passivo) dello sguardo maschile (attivo). Ciò è abbastanza evidente nell’introduzione dei personaggi maschili Stan e Dimitri, i due amici di Richard giunti sul posto per una battuta di caccia nel deserto. Attraverso un movimento sull’asse, la macchina da presa mostra la ragazza osservata dalla porta-finestra mentre sta mordendo una mela (rivelando solo in un secondo momento i due uomini) o brevi soggettive (riconoscibili dalla forma del binocolo) che vanno a stringere sui dettagli del corpo della stessa, quasi fosse una preda da inseguire e agguantare, durante un piccolo party serale.
Secondo la Fargeat, ora, Jen è la donna-oggetto da contemplare e possedere (un “beauty ass” a cui è impossibile resistere) e il centro di uno sguardo scatenante il desiderio sessuale che infatti poi trova sfogo nella violenza carnale messa in pratica da Stan. Ma se Jennifer è ben lontana dalla figura innocente e inconsapevole della propria carica erotica, mentre la caratterizzazione delle figure maschili delinea i loro comportamenti secondo il più basso e viscido istinto dell’animale predatorio a cui si aggiunge quel principio di auto-legittimazione dello stupro che vede nella vittima il fattore scatenante, talvolta colpevole più dell’autore della stessa violenza. Ancora di più qui a fare un’ulteriore differenza, almeno per quel che riguarda la rappresentazione della violenza subita da Jennifer, è una resa scenica virata nel segno dell’anticlimax appellandosi ad una serie di metafore visive che più volte anticipano il destino della ragazza (pensiamo alla mela mangiucchiata dalle formiche).
Stan è l’unico che effettivamente la stupra, approfittando della momentanea assenza di Richard, poiché convinto di essere stato provocato dai suoi atteggiamenti della sera prima, nonostante il dichiarato dissenso della donna. Per Dimitri, invece, l’atto ha la medesima rilevanza di azzannare e ingurgitare con gusto un junk food. Gode dello stato di impotenza della giovane e poi si gira dall’altra parte, preferendo fare un bagno in piscina. Richard, una volta rientrato e venuto a conoscenza dello stupro, le offre del denaro per comprare il suo silenzio ma quando lei rifiuta i soldi e minaccia di rendere pubblica la loro relazione, l’uomo la getta da un burrone dove lei muore impalata ad un albero.
Il corpo di Jen è dunque violato, ferito e umiliato dai tre in modi diversi. Tuttavia la ragazza non muore, anzi, resta selvaggiamente attaccata alla vita tanto da risorgere metaforicamente più e più volte nel corso del film. Dal momento in cui si risveglia e si rialza, ha inizio la sua trasformazione: la maglietta rosa brucia; il tronco la penetra (con tutto il simbolismo sessuale del caso) aprendole la carne; il corpo perde la leggerezza e gli aspetti sbarazzini dei suoi vestiti; gli accessori (pensiamo al lobo con l’orecchino a stella), le unghie e dei capelli si sporcano, si mescolano alla polvere, alla cenere e al sangue. A morire davvero è la donna-oggetto.
Come una fenice, la ragazza è pronta a rinascere (pensiamo all’immagine marcata a fuoco sulla pelle quando si cauterizza la ferita) ribattezzata e forgiata dalla terra e dal Mito ancestrale di una Furia greca ferita ma implacabile. Come la Fargeat utilizza la forma e le dinamiche del genere per ribaltare il punto di vista dello spettatore nel regime scopico patriarcale attraverso la grammatica del cinema, di lì a poco, Jen si appropria delle armi degli uomini, ora divenuti suoi inseguitori (compreso il binocolo, lo strumento di osservazione per eccellenza) per ucciderla.
In quel momento lei diventa la portatrice dello sguardo attivo e si pone su un terreno di lotta paritario per sopravvivere e, in un secondo momento, per affermare il proprio status di donna attiva restando comunque una figura sessualizzata: il “beauty ass” che la definisce nel primo atto è sempre messo in evidenza dalle inquadrature strette su di lei, anche dopo la “trasformazione” del personaggio, persino il bikini che indossa continua ad esaltare le sue forme. In Revenge è proprio il corpo ad assumere centralità. Esso trasmuta, si sporca, si ferisce, cade e si riaggiusta ma non è mai virilizzato.
In questo senso anche il film subisce una mutazione pur restando dentro le dinamiche di preda e cacciatore sottolineate nel primo incontro con Stan e Dimitri. Se l’azione decostruttiva nei confronti del genere è stata messa in atto nella sequenza dello stupro, il film vira lentamente verso una dimensione nuova che si nutre di diversi richiami al western, dove Jen è assoluta protagonista pronta a compiere la sua vendetta contro chi le ha fatto del male.
Be’, devi capire che quasi l’intero processo del fare un film è corpo, per chiunque. Non puoi fotografare un concetto astratto. Tu fotografi il corpo umano, e soprattutto il volto. Quindi penso che qualunque regista, se lo riconosce onestamente, capirà che il cuore di ciò che fa è orientato al corpo e alla coscienza del corpo. Anche quando sto facendo una scena di dialogo e metto in luce il viso di Viggo, sto cercando di evidenziare le sue ossa e i suoi capelli, il suo sorriso e il suo comportamento. E’ tutto linguaggio del corpo.
Le parole del regista David Cronenberg, un autore che ha fatto del ragionamento sulle mutazioni corporali, l’evoluzione del body horror e il peso della carnalità, aspetti e temi portanti della sua poetica, sembrano acquisire un ulteriore significato per comprendere come l’uso preciso dell’inquadratura e del linguaggio sia il principio ultimo per costruire un discorso che usa il corpo come mezzo di espressione preferenziale. Significativo, in tal senso, è che l’inevitabile legge del contrappasso, applicata da Jen contro i suoi carnefici, si muove tutta nella direzione del corpo e della penetrazione della carne messa in bella vista: Dimitri viene accecato dalla lama di un coltello, in quanto testimone/complice dello stupro; Stan, l’autore materiale della violenza, viene ferito al piede con un taglio che richiama palesemente le forme dell’organo femminile e in fine Richard, che l’ha tradita e uccisa, viene affrontato nella sua villa e colpito al ventre da un proiettile di grana grossa, lo stesso punto in cui lei era stata impalata.
Proprio in questo ribaltamento, il lavoro della Fargeat giunge al punto critico nel tentativo di proporre un’icona femminile “nuova” rispetto all’immaginario exploitation a cui si rifà (in particolare quello anni ’70), più simile ad un action hero in via di emancipazione.
Nel seguire questa evoluzione, Revenge si muove però su una traiettoria un po’ ambigua che se da un lato non sembra voler esaltare gli aspetti più sovrumani e disumani della protagonista (quelli che vedrebbero in Jennifer una macchina da guerra senza espressione, “virilizzata” appunto e troppo derivativa rispetto ai modelli di action hero) mantenendo dunque un atteggiamento legato alla concretezza dell’azione, ad una dimensione più realistica e alla fallibilità della giovane (l’omicidio di Dimitri avviene quasi in maniera casuale, la prima volta che usa il fucile sbaglia il bersaglio e cade a terra per il rinculo), dall’altro finisce per estremizzare fin troppo la natura mitica della donna e a ridurre i soggetti maschili a banali macchiette.
La Fargeat si affida di fatto ad uno stile pervasivo, ultra pop e citazionista, ricco di splatter e sineddoche visive (vedasi il montaggio associativo di animali che ingurgitano e azzannano le prede, durante il sogno allucinato e a mo’ di mise en abyme nella testa di Jen) per mettere in scena la rinascita della donna come una survival girl pronta a incamminarsi verso un nuovo orizzonte narrativo simbolo del girl-power e ritorsione contro il maschilismo più becero.
Ed è proprio nel duello finale che si compie in modo definitivo quel ribaltamento dello sguardo fin qui teorizzato, oltre all’ultima fase del processo di destrutturazione attuato sul genere: Richard si muove nell’appartamento sentendosi continuamente osservato, consapevole che Jen gli sta dando la caccia. Ad un certo punto chiama l’elicottero perché lo riporti in città, finché all’improvviso non si rende conto che la ragazza è appostata dall’altra parte del vetro con il fucile in mano. Con il medesimo movimento sull’asse che nelle prime scene mostrava Jen aggirarsi in cucina per poi svelare Stan e Dimitri nell’atto voyeuristico di osservatori attivi, ora la macchina da presa mostra Richard come oggetto dello sguardo attraverso il vetro: lei è il cacciatore, lui la preda.
Alla fine, una volta portata a termine la vendetta, Jen può tornare nel mondo, pronta a incamminarsi verso un futuro nuovo. Ciò conduce alla rifondazione dello statuto dello sguardo che trova la sua maggior forza nel corpo ferito e indomito di Matilda Lutz, essere carnale finalmente libero dalle etichette sociali, dalla sensualità “venduta” come colpa di attenzioni sgradevoli e da quel modello di donna-immagine usa e getta costantemente trasmesso negli spot pubblicitari da uno schermo tv.
A fare la differenza è più che mai il luogo, il campo d’azione in cui prende vita lo scontro tra Jen e i suoi aguzzini. Non a caso il deserto è il luogo archetipico per eccellenza (altro richiamo al western e alla wildness), il perfetto teatro in cui le psicologie dei personaggi sono riportate al grado zero e l’essere civilizzato viene messo a nudo, svuotato dalle proprie sicurezze e dal quel ruolo dominante da sempre occupato (il capo-branco con il potere esercitato sul più debole, il possesso materiale come status quo di realizzazione) per giocare su un terreno paritario, ostile e selvaggio in cui gli istinti primordiali si liberano da ogni sovrastruttura sociale. Perché alla fine, quella che mette in scena Coralie Fargeat è un’autentica lotta per la sopravvivenza dal sapore ancestrale, dove il sangue scorre a fiotti dai corpi, inonda superfici, e distrugge simboli patriarcali e feticci sessuali, mentre l’agire umano perde ogni razionalità. Ed è qui che lo stile eccessivo della Fargeat trova una sua ragion d’essere e può permettersi qualche eccesso di parossismo narrativo.
Probabilmente ha ragione chi ha definito Revenge un instant cult arrivato a noi in un momento storico favorevole (proprio in quello di massima risonanza dei recenti movimenti femministi) la cui efficacia viene in parte depotenziata da scelte di scrittura fortemente grossolane, risultando così un prodotto più fortunato che memorabile e il sottotesto rischia di contare assai meno rispetto a come viene detto. Eppure la volontà della Fargeat di sviluppare il suo personale discorso di distruzione/ripensamento sull’immagine della donna-oggetto e di aggiornare un sottogenere horror attraverso la propria sensibilità, che tiene conto di determinate problematiche contemporanee, unito ad un’innegabile talento nella messa in scena, bastano a rendere questo esordio una piacevole sorpresa.
Resta da capire quanto la direzione intrapresa da Revenge verrà in qualche modo portata avanti e se la regista saprà mantenere le promesse qui suggerite con opere successive, forse cimentandosi con altri modelli narrativi. Per ora prendiamo questo film d’esordio come un tentativo sperimentale, animato da un sano spirito di arroganza e da un’affatto nascosta carica eversiva, radicale tanto nella forma quanto nell’approccio comunicativo scelto, che non teme di misurarsi con gli stereotipi e gli studi sullo sguardo e sulla rappresentazione della donna nel cinema postmoderno.
Laura Sciarretta