“Star Trek”, pro e contro di una nuova rotta- capitolo I: “Star Trek: Beyond” e il non andare “oltre”
Il viaggio continua… ma per dove? Conclusa la prima stagione di Picard (da noi su Prime Video) abbiamo a disposizione un tassello in più per riflettere sul “nuovo corso” di uno dei più popolari franchise fantascientifici di sempre, avviato nel 1966 (con la prima, storica serie creata da Gene Roddenberry) e rilanciato (con tutte le luci e ombre del caso) nel 2009 con lo Star Trek diretto da J.J. Abrams. Prima di affrontare l’emblematico e complesso caso della serie interpretata da Patrick Stewart, soffermiamoci allora sul primo atto di questa discussa nuova fase, ovvero il riavvio cinematografico, proseguito nel 2013 con Star Trek: Into Darkness (sempre diretto da Abrams) e arrivato a (parziale e provvisoria) sintesi col terzo capitolo, Star Trek: Beyond (2016), diretto da Justin Lin. E ci soffermeremo proprio su quest’ultimo, che riflette (ancora più emblematicamente degli altri due) pregi e limiti della fase recente del franchise (al cinema e in tv).
La storia (produttiva e di ricezione) di Star Trek: Beyond (tredicesimo lungometraggio della saga al cinema) è quella di un disastro semi-annunciato ma scongiurato in corner, e (anzi) rivelatosi paradossalmente non solo un successo apprezzabile (di pubblico e critica), ma anche il capitolo (degli ultimi tre) che meno ha fatto storcere il naso ai trekkies di vecchia data. Da questo punto di vista, problemi come l’abbandono del regista-Re Mida J.J. Abrams e i cambi di rotta in fase di sceneggiatura (vittima lo script di Roberto Orci), si sono rivelati dei vantaggi, almeno nel riavvicinarsi ad atmosfere più vicine a una classicità (rimodernata) che ha fatto sentire più vicini a casa molti fan storici. Quindi tutto funziona in Beyond? No, non proprio, e forse uno dei limiti maggiori si lega proprio a quell’avverbio ambizioso affiancato al consueto marchio della saga.
In uno dei più begli episodi della sterminata epopea televisiva dedicata a Star Trek, per la precisione l’episodio 6×13 della serie Deep Space Nine, intitolato Far Beyond the Stars (“beyond”, non a caso) ci viene mostrata una realtà alternativa, simile alla New York degli anni Cinquanta, popolata da alter ego (interpretati dai medesimi attori) dei personaggi abituali. Questi alter ego sono perlopiù squattrinati scrittori di fantascienza e uno di loro, Benny Russel, “doppio” del capitano Sisko (Avery Brooks), vive particolarmente male (da afroamericano) il clima di quel luogo e di quegli anni: gli Stati Uniti del razzismo e del Maccartismo.
Lo scrittore, per raggranellare qualche soldo, s’inventa allora un racconto di fantascienza visionario: la storia di un futuro lontano, dove gli esseri umani hanno imparato a coesistere in pace, al di là di barriere etniche e nazionali, di interessi personali e diversità reciproche. Dove una tecnologia finalmente al servizio di un rinnovato umanesimo ha contribuito a risolvere i grandi problemi del mondo, dalla fame al bisogno di energia. Dove quest’umanità utopica esplora lo spazio, non per conquistare o sfruttare, ma per conoscere nuovi mondi e società: il futuro di Star Trek, insomma.
L’idea geniale di Far Beyond the Stars è che, alla fine, potremmo pensare che quella dello scrittore Benny Russel non sia semplicemente una realtà alternativa, ma che egli sia il “vero” creatore dell’universo di Star Trek: tanto che in successivi episodi ci verranno mostrati dei flash di Benny intento a decidere degli sviluppi da far prendere alla storia, gli stessi che attendiamo come spettatori della serie.
Un episodio come Far Beyond the Stars esprime al massimo grado lo specifico di Star Trek come creazione cine-televisiva, la sua poetica dietro e accanto alla natura di prodotto d’intrattenimento, e insieme la ragione autentica del suo ultracinquantennale successo. Perciò non è fuori luogo chiederci, di fronte a un film come Star Trek Beyond: che cosa ne penserebbe Benny Russel? E soprattutto, sarà davvero uscito anche questo dalla sua fantasia? In altre parole: Star Trek Beyond (come i due capitoli che lo precedono) fa giustizia alla poetica della saga? Sì e no, rispondiamo noi.
Ma andiamo con ordine, e partiamo dai pregi. Primo fra tutti, la gestione dei personaggi. Qui non serve scomodare altri episodi televisivi del franchise, basta dare un’occhiata ad alcuni dei lungometraggi più riusciti, come Rotta verso la Terra (The Voyage Home) o Primo contatto (First Contact): Star Trek è una saga corale dove, se è vero che alcuni personaggi spiccano per carisma e approfondimento su altri, l’insieme funziona se ogni membro della famiglia-equipaggio possiede il suo perché e le sue sequenze-chiave all’interno del film. E il trucco, ci insegnano appunto i precedenti citati, è banale quanto efficace: perché il cast funzioni a livello corale, la cosa migliore è dividerlo. Nella parte centrale del film, infatti, i protagonisti sono sparpagliati in diversi angoli del pianeta a cui corrispondono altrettanti rivoli paralleli in cui si articola la vicenda. Ne guadagna il ritmo della narrazione, ma soprattutto si ha la sensazione che ogni personaggio abbia modo di praticare il suo assolo, breve o lungo, per la felice riuscita del concerto.
Altro aspetto positivo, a sorpresa, il nuovo regista Justin Lin: sbandierato dalla promozione come l’uomo “di Fast & Furious”, il suo merito sta invece nel sapersi mimetizzare, con professionalità impeccabile, nell’estetica della saga, sia pure quella “revisionata” da Abrams. Quest’ultimo aveva e ha rivoluzionato il franchise a livello visivo, prima ancora che narrativo: mobilitando effetti digitali e montaggio da vero blockbuster del nuovo millennio, ridefinendo in parte il design di ambienti e alieni (ma conservando la giusta dose di elementi familiari, dal look delle uniformi al suono del teletrasporto) e ammantando il tutto di una fotografia abbagliante col (fin troppo?) caratteristico lens flare. Lin si adegua a questa formula senza innovare granché ma senza nemmeno peggiorare: anche gli inserti di colonna sonora pop-rockettara sono giustificati diegeticamente, al pari della sequenza dei numeri di Kirk (Chris Pine) in moto.
Un encomio a parte va alla gestione di un evento extra-diegetico (intercorso durante la lavorazione del film) quanto mai ingombrante: la morte di Leonard Nimoy, iconico interprete del personaggio di Spock nella serie originale e anche, per il paradosso temporale narrato dal film del 2009, nel re-boot di Abrams. Questo Beyond affronta il piccolo grande shock senza ignorarlo ma senza imbarcarsi in resurrezioni digitali: semplicemente, lo integra con un senso nella storia, regalandoci alcune sequenze di grande intensità meta-filmica, dove la morte non è aggirata ma affrontata esplicitamente (e integrata poeticamente) nel tessuto narrativo, per giunta con un’inattesa valenza positiva.
I limiti del film? Qui Benny Russel, dal suo appartamento newyorchese negli anni Cinquanta, solleva gli occhi dalla macchina da scrivere e si rivolge direttamente agli spettatori: manca la storia. Una trama principale davvero potente, originale e memorabile che amalgami i diversi elementi positivi. O meglio: una storia c’è, ma a dirla tutta non viaggia davvero oltre. E in un duplice senso: da un lato, non aggiunge molto di nuovo al complesso di storie già narrato da Star Trek; ma soprattutto, non supera, se non in occasionali momenti, la linea di confine che dovrebbe separare questa saga da un qualunque altro prodotto dell’industria hollywoodiana avente a che fare con spazio e minacce planetarie.
La trama principale di Star Trek Beyond, in questo senso, si riassume in: c’è un “cattivo” che nel suo nascondiglio-prigione prepara la vendetta ai danni dei “buoni”, naturalmente da realizzarsi con una terribile arma di distruzione di massa. Quante volte lo abbiamo già visto? È vero che la sceneggiatura tenta all’ultimo giro di scombinare le carte e dare spessore al villain di Idris Elba, ma con troppa fretta e troppo tardi, quando ormai la tensione si è quasi tutta giocata seguendo il macchinoso quanto prevedibile piano di questo rancoroso paravampiro spaziale. A fare da contorno, vero anche questo, ci sono le evoluzioni dei personaggi principali con i loro dissidi interni (le speculari figure di Kirk e Spock), ma non basta.
Manca (qui e in tutta la “gestione Abrams”) quella poetica che, nata in un mondo difficile (il nostro), aveva puntato su un’idea davvero semplice e geniale: mostrare un’utopia positiva, dove però i grandi problemi della nostra attualità vengano comunque affrontati, ma nella chiave allegorica del viaggio interstellare, dove i diversi pianeti richiamano e denunciano conflitti, controversie, ingiustizie del nostro presente.
Questo, prosegue Benny Russel, è il mio Star Trek, ma non è solo questo: in cinquant’anni di episodi e film Star Trek ha attinto, rielaborandolo in universo diegetico vasto e coerente, l’intero immaginario fantascientifico mondiale. Da esso, con esso (e talvolta anche prima di esso) ha esplorato, prima che i pianeti, le più stimolanti tematiche proprie di questo immenso genere-contenitore: dagli interrogativi sulla presenza di intelligenze più potenti di quella umana nell’infinità dello spazio, ai paradossi etici (e poetici) delle forme di vita artificiali, al contrasto tra realtà e finzione in mondi popolati da ologrammi, e tanto altro. Quando ti confronti con Star Trek, chiosa Benny Russel, hai a disposizione tutto ciò che sia etichettabile come fantascienza, ed è una responsabilità, prima ancora che un’opportunità.
Il problema non interessa solo i fan (più o meno integralisti) del franchise, ma è ben più ampio: un nuovo film (o una nuova serie) di Star Trek, ogni nuovo film di Star Trek, è l’occasione, date le specificità della sua poetica, di andare oltre, non solo per la saga in se stessa, ma per l’intera prassi della serialità e del blockbuster di fantascienza: perché pochi prodotti come Star Trek sono (o sarebbero) in grado di sposare l’intrattenimento con la riflessione su temi alti, complessi, e magari anche con la polemica non scontata verso alcuni aspetti della nostra realtà.
In Beyond c’è un piccolissimo assaggio di questo potenziale, nella sequenza in cui il personaggio di Sulu (John Cho), sbarcato sulla stazione spaziale, riabbraccia il proprio compagno e la figlia piccola di entrambi. Una piccola rivoluzione gettata lì quasi per caso (e che sarà sviluppata in Star Trek: Discovery), la prima coppia gay nel franchise di Star Trek. Dopo cinquant’anni (e aver violato tabù come il primo bacio interraziale della tv americana) la sagasi rimette ancora in discussione, e stimola a sua volta il dibattito: nell’utopia positiva, le famiglie omogenitoriali ci sono. Uno spunto che verrà fortunatamente raccolto nella prima serie tv successiva al film
Dal 2017, infatti, la scommessa del nuovo Star Trek è migrata (finalmente) anche nella serialità televisiva, con Discovery prima e Picard poi: portandosi però dietro (in modo diverso) le contraddizioni di Beyond (e non solo), il nodo irrisolto tra recupero del passato e aggiornamento al presente, tra la tensione ad andare oltre e i limiti delle modalità scelte per farlo. Nel frattempo, «lontano, oltre le stelle», Benny Russel continua a domandarsi se, nella nostra epoca, raggiungere «l’ultima frontiera» sia ancora possibile.
Emanuele Bucci