Tornare all’enigma. Twin Peaks (2017) e lo scarto tra passato e presente
0. Non tutto (nei revival) può essere detto ad alta voce
La Stanza Rossa, le note di Angelo Badalamenti, l’agente speciale Dale Cooper seduto sulla poltroncina scura. E soprattutto, Laura Palmer. Ma sarà davvero lei? Laura è morta, come sappiamo dal primo episodio (1990) di Twin Peaks. Assassinata a diciotto anni e avvolta in un sacco di plastica, il sacrificio necessario affinché gli spettatori di uno dei serial televisivi più celebri e discussi di sempre si ponessero (almeno per una stagione e mezzo) la fatale domanda: chi l’ha uccisa? Eppure, la donna che (ri)vediamo nella serie sequel del 2017 sembra davvero lei, Laura Palmer. «I am dead, yet I live», ribatte alle perplessità nostre e del suo ospite: “Sono morta, tuttavia vivo”. Ma non è nemmeno questo, il vero problema. Lo sapevamo già che i morti (e in particolare quella morta) nella dimensione onirico-metafisica nota come “Stanza Rossa”, tendono a manifestarsi. C’è qualcos’altro che ci destabilizza e inquieta, più ancora del trovarci di fronte a uno spettro, o a un doppio. Qualcosa che non può essere detto ad alta voce, ma solo sussurrato all’orecchio, come fa (e aveva già fatto, venticinque anni prima) questa Laura, dopo essersi avvicinata a Cooper e averlo baciato. La prima volta, lo sappiamo, il segreto sussurrato era quello sull’identità dell’assassino. E stavolta? Stavolta c’è qualcosa di ancora meno dicibile, qualcosa che forse non sapremo mai, ma su cui non smetteremo di interrogarci.
Sono passati trent’anni dalla prima messa in onda di Twin Peaks, e più di due dai diciotto episodi del suo sequel, con l’emblematica sequenza che abbiamo rievocato. Ma ancora adesso, questa serie, e tanto più questo ritorno-seguito più di venticinque anni dopo la brusca chiusura dello show originale, fa l’effetto di un sogno (o di un incubo) tornato a visitarci dopo decenni per lasciarci (di nuovo) con poche risposte, altre domande e tante sensazioni contrastanti.
A tutt’oggi (e chissà per quanto) il nuovo Twin Peaks è un oggetto su riflettere. E poiché non basterebbero dieci monografie per esaurire la quantità di spunti che questi diciotto episodi-capitoli sollevano, noi qui ci focalizzeremo su un unico, fondamentale problema: lo scorrere del tempo. O, per meglio dire: del tempo effettivamente trascorso, a scapito delle intenzioni originarie degli autori, tra la seconda stagione (e il provocatorio prequel cinematografico sui generis di Fuoco cammina con me, 1992) e questo seguito-ritorno fuori tempo massimo (o forse proprio al momento giusto).
Non ci sembra esagerato affermare che il nodo del tempo trascorso, e del suo influsso sulle strategie narrative e stilistiche volte a ripresentare e rilanciare la serie al pubblico, sia non solo un aspetto fondamentale del nuovo Twin Peaks, ma una delle possibili chiavi per interpretarlo nel suo insieme. E, forse, riflettere su tale nodo ci permetterà di formulare un’ipotesi su quale potrebbe essere il segreto sussurrato da Laura a Cooper, quella cosa che “non può essere detta ad alta voce”: posto che nel mondo di David Lynch, e segnatamente della sua creazione prediletta Twin Peaks, a meno che non sia l’autore stesso a darci delle risposte (e quasi certamente non lo farà), non esiste una soluzione unica e definitiva che chiuda gli interrogativi soffocando le possibilità di ulteriori interpretazioni. E va bene così.
1. Il paradosso del “Meanwhile”
Per addentrarci nel nostro discorso, dobbiamo fare un passo indietro: nell’ultimo episodio della seconda stagione di Twin Peaks, Laura Palmer, con la consueta voce distorta che caratterizza le presenze perturbanti della Stanza Rossa, annunciava a Cooper che l’avrebbe rivista «tra venticinque anni». Per poi chiosare: «Meanwhile» (tradotto nell’edizione italiana con “ma nel frattempo”). Quindi, un gesto enigmatico con entrambe le mani aperte a due altezze diverse, che potrebbe essere accostabile all’idea di “sospensione”. Parole e segni criptici come tutti i messaggi che arrivano dalla Stanza Rossa, ma certamente all’epoca della messa in onda (nel 1991) gli autori non avevano in mente di prenderlo così alla lettera. Le travagliate vicissitudini produttive della serie, invece, hanno fatto sì che la nuova stagione venisse realizzata quasi in tempo per adempiere alla promessa-profezia di Laura: tanto che questa promessa-profezia è diventata, inevitabilmente, l’elemento chiave per il lancio pubblicitario della nuova serie e per il riaggancio con la narrazione pregressa.
Il problema, però, resta: nel mondo “reale” venticinque anni sono passati davvero, non si tratta più (solo) di finzione. E, a differenza di come sarebbe andata se la produzione di allora non avesse cancellato la terza stagione già progettata nei primi anni Novanta, quel «Meanwhile», quel “frattempo”, quel tempo trascorso a cui alludeva la frase di Laura, ha assunto un peso davvero enorme: tanto da costringere l’ispirazione degli autori, la loro scrittura e realizzazione artistica, a confrontarcisi sistematicamente, di puntata in puntata. Nel nuovo Twin Peaks il vero problema (ma in senso anche positivo, come spunto fecondo e ostacolo che stimola la creatività) è l’effetto di questo (involontario) passaggio di tempo, ovvero i segni del “Meanwhile” e il modo di affrontarli.
Torniamo allora a venticinque anni dopo, alla realizzazione della profezia: a quel nuovo confronto, auspicato dai fan e a lungo deluso dagli eventi esterni alla diegesi, tra Dale Cooper e Laura Palmer. Entrambi interpretati, come allora, da Kyle Maclachlan e Sheryl Lee. Eppure, entrambi “non più loro”, in un certo senso. Lo spettatore, al di là dell’inquietudine onirico-metafisica che caratterizza la sequenza, è affascinato e turbato al tempo stesso. Quei personaggi sono familiari e riconoscibili, eppure deformati e (tra)sfigurati dal tempo: non più giovanotti, trentenne l’uno e ventenne l’altra, ma un uomo e una donna di mezza età, su cui due decenni e mezzo hanno inciso i loro segni, che la messa in scena non tenta di nascondere: tra rughe sui volti e, nel caso di Laura, anche un taglio di capelli vistosamente diverso da quello dell’ultimo episodio della seconda stagione. Niente di più naturale, per il mondo fuori dalla serie. Ma un elemento di innegabile disturbo nel reame della finzione: specialmente quando parliamo di una dimensione, la Stanza Rossa, dove il tempo lineare (viene più volte ribadito) non esiste, e di due personaggi, Cooper e Laura, diventati nel frattempo due vere e proprie icone per milioni di appassionati.
Già solo da questo primo confronto, allora, possiamo farci un’idea di quale sia la posta in gioco: nel nuovo Twin Peaks la tematizzazione e rappresentazione dello scorrere del tempo fa entrare in cortocircuito testo (il film-serie tv, con le sue leggi interne e la storia che racconta) ed extratesto (il mondo fuori dal film, quello in cui vivono regista, attori, spettatori, ma anche l’insieme degli altri testi filmici già prodotti, compresi i vecchi episodi della serie). Non solo: tale cortocircuito, per evidente volontà di autori e regista, non viene attutito, addolcito, tanto meno celato, nella forma e nel contenuto della nuova narrazione. Il nuovo Twin Peaks, perciò, è sicuramente un “ritorno”, come esplicita il titolo unificante di tutti gli episodi, ma un ritorno (per i personaggi nella finzione e per gli artisti e spettatori nel mondo reale) a qualcosa che, irrimediabilmente, non è più come lo avevamo lasciato, non può tornare ad esserlo e forse non lo vuole.
C’è un mondo, fuori dalla rappresentazione, che venticinque anni fa ha decretato una svolta, ha fatto violenza, ha ucciso una serie tv e la storia che avrebbe potuto narrare. E da questo non si può prescindere. Come Laura Palmer, Twin Peaks “è morta, tuttavia vive”. Anzi, si può dire che la “morte” prematura della serie, paradossalmente, abbia dato un contributo fondamentale per la sua vitalità nella ricezione degli spettatori, che hanno discusso gli sviluppi lasciati in sospeso, sofferto per i personaggi abbandonati anzitempo, visto e rivisto le puntate in cerca di nuovi indizi che rispondessero alle domande irrisolte, invocato di anno in anno una resurrezione e creato l’orizzonte d’attesa necessario perché ciò effettivamente avvenisse. Probabilmente, Twin Peaks non sarebbe la serie di culto che è diventata senza quella brutale interruzione. Ma è stata comunque una violenza, un sacrificio pagato col sangue, come quello di Laura: e né Lynch né Frost sembrano avere la presunzione e l’ipocrisia di negarlo.
Risulta evidente, anche da quello che abbiamo detto, che nel nuovo Twin Peaks la rappresentazione del tempo trascorso è legata a doppio filo con uno dei nodi fondamentali di questa serie (ma anche della sua ricezione presso il pubblico): il rapporto tra morte e vita, e ancora di più tra morte e “nuova” vita. È la stessa sequenza del confronto, venticinque anni dopo, tra gli invecchiati Dale e Laura a porre, come abbiamo visto, il problema: “Sono morta, tuttavia vivo”. Riteniamo che tale frase non sia da intendersi solo alla lettera (Laura vive come presenza onirico-spettrale nella Stanza Rossa) e in senso metatestuale (morendo, Laura continua a esistere come personaggio nella memoria degli spettatori). C’è un’ulteriore chiave di lettura, che potremmo collegare all’idea della morte che emerge da questi episodi, e che con ogni probabilità rimanda alle convinzioni personali di Frost e Lynch. Questi ultimi, a modo loro, sono due mistici: Frost, fortemente influenzato dalla teosofia, e Lynch, seguace convinto della meditazione trascendentale di derivazione induista, credono entrambi in un piano trascendente ed eterno dell’esistenza a cui è possibile ricongiungersi.
Ne consegue che, per entrambi, la morte non è necessariamente da intendersi in modo negativo, come fine ineluttabile della vita. Al contrario, si tratta di una trasformazione, di un passaggio addirittura positivo da uno stato all’altro: un trascendimento del proprio stato di sofferenza e, forse, una reincarnazione o un’incorporea reimmersione nell’originario ed eterno mare delle coscienze unificate, quello che Lynch stesso descrive come un “oceano” e di cui ritiene si possa fare temporanea esperienza nelle sedute di meditazione.
Si può rimanere scettici di fronte a queste idee, ma non si può negare che proprio l’immaginario di Twin Peaks sia intriso di metafisica, e non solo quella oscura e inquietante di ambigui e maligni demoni extradimensionali, ma anche un’altra, più luminosa e ineffabile: si pensi, nella serie originale, alla bellissima sequenza della morte di Leland Palmer, dove l’agente Cooper sembra “instradare” lo spirito dell’altro verso un nuovo piano dell’esistenza, luminoso e incorporeo, di pace e riconciliazione con la stessa figlia. Questa visione non è estranea nemmeno al nuovo Twin Peaks: la morte, come vedremo meglio più avanti, è esplicitamente definita da uno dei personaggi più cari ed emblematici della serie come qualcosa che costituisce non una fine ma un «cambiamento».
Tutto questo, allora, non può che legarsi anche al discorso che qui ci interessa, quello della tematizzazione e rappresentazione del tempo “trascorso”, del “Meanwhile”. Tempo trascorso vuol dire invecchiamento, vuol dire, per gli esseri viventi, avvicinarsi a quel “cambiamento” che è la morte. E talvolta, come vedremo, l’avvicinamento arriva addirittura a superare il confine, nel mondo di Twin Peaks e nel mondo reale che sul nuovo Twin Peaks incide così tanto. Ma questo passaggio, questo invecchiare e morire, ha dignità di essere rappresentato, e per certi versi addirittura sottolineato ed esaltato, appunto perché si tratta non della fine o del disfacimento della vita, ma della sua massima espressione in quanto continuo “cambiamento”.
Ciò non vuol dire, però, che il cambiamento di cui si fa esperienza (l’invecchiare e il morire) sia di per sé un’esperienza piacevole. Al contrario, si tratta inevitabilmente di un’esperienza dolorosa, paurosa, nel migliore dei casi malinconica. La visione “positiva” della morte come ulteriore cambiamento in una prospettiva di eternità metafisica non cancella la sofferenza, l’angoscia e lo straniamento del passaggio di tempo sulla materia. Se la morte è la transizione necessaria per una rinascita, questa transizione ci fa sempre male: anche, e tanto più, come spettatori che devono confrontarsi con la messa in scena anche visionaria, ma non per questo edulcorata, dello scorrere implacabile degli anni: tra personaggi (e attori) che scompaiono o che, in un modo o nell’altro, non sono più quelli che ricordavamo.
2. «Quando mi vedrai di nuovo non sarò più io»
Tra i nodi più emblematici del corto circuito tra testo ed extratesto che lo scorrere del tempo ha generato nel nuovo Twin Peaks c’è sicuramente quello dell’assenza di membri rilevanti del cast originale, che tuttavia non significa necessariamente assenza dei relativi personaggi dalla nuova serie. Su questa fondamentale distinzione si gioca l’aspetto più interessante della questione: di fronte all’assenza di alcuni attori importanti della vecchia serie, la strategia prevalente di autori e regista è stata quella di affrontare di petto il problema. Non si ignora e non ci si scorda di quei personaggi, che anzi vengono spesso citati e variamente rappresentati, ma in modo da non occultare il trauma della scomparsa o dell’allontanamento dei loro interpreti, bensì sottolineando il cambiamento, il divario tra ieri e oggi. Vediamo alcuni esempi.
Il primo e più emblematico caso è quello dell’“Uomo da un Altro Posto”, ovvero l’iconico nano che passeggia e balla per la Stanza Rossa, interpretato nelle prime due stagioni e nel film-prequel da Michael J. Anderson. Si tratta di uno dei personaggi più celebri e rappresentativi dell’intero serial, e forse quello che meglio di tutti, col suo comportamento ambiguo ed enigmatico, incarna la componente onirica e fuori dagli schemi dello show. Non a caso, uno dei primi teaser promozionali della nuova serie raffigurava proprio il personaggio di Anderson danzare nella Stanza Rossa, malgrado non ci fosse alcuna certezza sull’effettiva partecipazione dell’attore al sequel-rilancio. E infatti la presenza di Anderson nel cast fu smentita, in una catena di divergenze, veleni e accuse infamanti che non ha nulla da invidiare a certi intrighi ai limiti dell’assurdo della vecchia serie. Quello che però qui ci interessa è l’effetto che la rottura intercorsa ha inevitabilmente prodotto sulle scelte creative dei realizzatori. Come può (ricominciare a) esistere questa serie, si domandavano tutti fino alla première, senza l’Uomo da un Altro Posto?
Lynch e Frost hanno risposto nel secondo episodio della nuova stagione, e in particolare nella già citata sequenza all’interno della Stanza Rossa. Il personaggio del’Uomo da un Altro Posto è effettivamente presente, ma talmente stravolto nelle sembianze da rendere lo stesso dato del suo ritorno un altro enigma tra gli enigmi: il nano ha assunto l’aspetto di un bizzarro albero parlante, spoglio ma irradiato di elettricità, presentato a Cooper come “l’evoluzione del braccio”. L’Uomo da un Altro Posto, infatti, si era definito già ai tempi di Fire walk with me “il braccio”, ovvero la metamorfosi dell’arto staccato di un altro personaggio extradimensionale, MIKE. Per quanto criptica, questa “evoluzione” si giustifica doppiamente sul piano diegetico: prima di tutto perché ci troviamo nella Stanza Rossa, dove le bizzarrie sono la norma; e poi, ancora di più, perché l’Uomo da un Altro Posto, nell’ultimo episodio della seconda stagione, aveva preannunciato a Cooper: «Quando mi vedrai di nuovo non sarò più io». Ancora una volta, dunque, una frase enigmatica pronunciata nella Stanza Rossa viene reinterpretata per farne un ponte attraverso l’ingombrante intervallo di tempo tra le due stagioni.
Un caso per certi versi analogo è quello del mancato ritorno di David Bowie nella parte dell’agente Phillip Jeffries, a causa della malattia che porterà alla morte il grande cantautore all’inizio del 2016. Anziché tagliare le scene col personaggio o ricorrere a qualche espediente visivo, Lynch affronta la questione nella maniera al contempo più diretta e visionaria possibile: dove c’era o dovrebbe esserci Phillip/Bowie abbiamo un surreale macchinario con un beccuccio simile a quello di una gigantesca teiera. Anche qui, come nel caso dell’Uomo da un Altro Posto, possiamo dire che la carica onirico-metafisica del mondo narrato in Twin Peaks e la bizzarra enigmaticità dei suoi sviluppi aiutano a giustificare diegeticamente la trovata. Tuttavia, l’uno e l’altro caso possono farci riflettere ulteriormente sulla strategia adottata da Lynch e Frost per affrontare il nodo dei ritorni mancati causa gap di venticinque anni.
Infatti, trasfigurare surrealisticamente personaggi di culto della serie come risposta all’assenza degli interpreti originari ci pare una scelta che punta non ad attutire il colpo del passaggio di tempo, bensì ad enfatizzarlo: da un lato come qualcosa di destabilizzante, cicatrice non ignorabile della violenza già subita dalla serie, e dall’altro come un dato paradossalmente positivo, in quanto contribuisce a rendere mutevole, dinamico, rinnovantesi e dunque vivo, l’universo che si è tornati a narrare; anche se questo significa prendere atto, con un visionario pugno nello stomaco, che Twin Peaks e i suoi personaggi più amati tornano, ma solo per confessare di non poter essere più come prima. E, anche in virtù dell’aggancio con la frase enigmatica dell’Uomo da un Altro Posto, tale impossibilità diventa un dato chiave dello sviluppo tematico della serie, una parte fondamentale della sua mitologia: oltre che di gufi che non sono quello che sembrano, il mondo di Twin Peaks si scopre (o si conferma) composto, per propria natura, di personaggi che tornano per non essere più loro.
Ed è in quest’ottica che possiamo leggere la gestione dell’altra grande e non ignorabile assenza nel cast del nuovo Twin Peaks: quella di Frank Silva alias BOB. Scomparso l’attore nel 1995, il problema di come rappresentare il demoniaco “cattivo” della serie originale si poneva sin dall’ideazione del sequel-revival: tanto che sul web si giocava a ipotizzare questo o quell’altro nome per un possibile recasting del personaggio. Invece, Lynch e Frost scelgono di ricorrere a una pluralità di soluzioni, ma escludendo significativamente proprio la strada della sostituzione con un altro interprete: oltre all’abbondante ricorso ai flashback con materiali delle passate stagioni, abbiamo anche qui, in alcune sequenze particolarmente significative, la soluzione della trasfigurazione surreale, anche se meno radicale che nei casi prima citati.
Difatti, in momenti come la “nascita” di BOB nell’episodio 8 o lo scontro nel penultimo episodio, il volto di Silva/BOB ci appare racchiuso entro un globo nero, che possiamo facilmente interpretare come un riferimento all’anima oscura del personaggio. Qui lo scarto tra vecchia e nuova serie risulta perciò parzialmente attutito dalla possibilità di distinguere comunque, entro la nuova e non più antropomorfica incarnazione, il volto del malvagio come lo conoscevamo. Ma è tuttavia significativo che per la maggior parte del tempo BOB sia “trasfigurato” in un modo per certi versi ancora più estremo, attraverso un’ulteriore soluzione per rappresentarne la presenza-assenza: e cioè nell’identificazione con il dopplegänger cattivo di Cooper.
Il Cooper malvagio è a tutti gli effetti un personaggio ibrido del Cooper che conoscevamo e di BOB. Non è un Cooper “classico” che occasionalmente cede il posto e la scena a BOB per commettere i crimini, come accadeva sovente a Leland nella vecchia serie. Questa, ipotizziamo, sarebbe potuta essere la soluzione adottata se la terza stagione fosse stata effettivamente prodotta a ridosso della seconda, con Silva ancora vivo: avremmo forse visto un Cooper molto più somigliante alla controparte buona trasformarsi a più riprese in un BOB altrettanto simile a quello delle prime due stagioni (e del film). Ma sono passati venticinque anni, e quello che abbiamo di fronte nel revival è piuttosto uno spaventoso incrocio dei due personaggi, un Cooper con consueti i capelli neri ma lunghi e sporchi come quelli di BOB, feroce divoratore di sofferenza umana ma sfruttando in pieno l’intelligenza dell’agente.
L’inquadratura più emblematica dell’identità ibrida di questo personaggio, non solo doppelgänger di Cooper ma destabilizzante trasfigurazione di BOB, è probabilmente il primo piano allo specchio nel quinto episodio: il Cooper malvagio guarda intensamente il suo riflesso, flashback inframmezzati ci ricordano il momento analogo della comparsa di BOB nello specchio alla fine della seconda stagione. Ma stavolta non è esattamente il volto di Frank Silva a materializzarsi: i lineamenti di Cooper mutano lentamente facendosi più simili a quelli di BOB, ma senza che il passaggio dall’uno all’altro volto si completi. L’inquietante incrocio che ne risulta mormora compiaciuto al suo riflesso: «Sei ancora con me? Ottima cosa». Ancora una volta, dunque, le conseguenze indesiderate del tempo trascorso tra una stagione e l’altra sono l’occasione per mettere in gioco nuove soluzioni visive e per mostrare nuove sfaccettature di quel mondo in continua, disorientante metamorfosi che è il mondo di Twin Peaks.
Risulta chiaro un dato: le soluzioni per gestire lo scarto temporale tra le due serie, rispetto alla ricomparsa dei personaggi “storici”, non contemplano il recasting. Questo ci sembra un aspetto fondamentale: “resuscitare” un personaggio affidandolo a un diverso attore, magari somigliante al passato interprete, sarebbe stato, oltre che poco apprezzato da molti fan, anche in contraddizione con la strategia di integrazione-enfatizzazione dello scarto tra ieri e oggi che stiamo ravvisando nel nuovo Twin Peaks. Questo perché il recasting è una strategia che testimonierebbe sì uno scarto col passato, ma in modo diverso dalle soluzioni sin qui esaminate: la sostituzione dell’attore, infatti, è uno scarto che pretende, dallo spettatore, di non essere percepito e letto come tale; è una strizzata d’occhio che suggerisce: “So che è cambiato qualcosa, ma tu non devi farci caso, fai finta che nel mondo della fiction tutto sia ancora come prima”. È una richiesta di sospensione dell’incredulità spesso disattesa perché vittima della sua stessa contraddizione, un’incongruenza che non ha il coraggio di ammettere la propria natura. Lynch e Frost, invece, come abbiamo visto, non solo accettano, ma valorizzano lo scarto col passato, lo confessano per ciò che è e ne fanno punto di partenza per escogitare nuove soluzioni tematiche ed espressive.
Certo, le trovate fin qui dette funzionano, come abbiamo visto, soprattutto perché si tratta di personaggi e luoghi diegetici che fanno della bizzarria destabilizzante la loro cifra fondamentale, dunque più è strana la soluzione adottata, più essa sarà coerente col mondo e le figure narrati. Ma per i personaggi più “umani” e al riparo da complicazioni metafisiche (posto che ve ne siano davvero) il discorso non è necessariamente lo stesso, e si rendono necessarie strade almeno un po’ diverse dalla smaccata trasfigurazione surreale. Il caso forse più emblematico e interessante in questo senso è quello dell’assenza di Michael Ontkean, interprete dello sceriffo Harry Truman: protagonista, quasi alla pari con Cooper, delle serrate indagini sui misteri che ruotano intorno a Twin Peaks, nonché personaggio molto amato anche per il profondo e sincero rapporto di amicizia che via via lo lega sempre più all’agente. A quanto risulta, Ontkean ha rifiutato un ruolo nella nuova stagione perché ormai ritiratosi da diversi anni. E il fatto che nel nuovo cast fosse stato inserito Robert Forster, già preso in considerazione ai tempi della vecchia serie per la parte di Harry, aveva fatto ipotizzare ad alcuni la soluzione del recasting. Invece, anche stavolta, il nuovo Twin Peaks imbocca una via alternativa e per nulla ovvia, di nuovo sottolineando e al contempo valorizzando come una risorsa il dato del tempo trascorso tra le due serie.
Forster, effettivamente, interpreta lo sceriffo Truman: ma non quello sceriffo Truman. Si tratta di Frank, il fratello di Harry. Quest’ultimo, invece, è lontano dal ben noto ufficio perché malato: ma non è, come potrebbe sembrare all’inizio, una scusa per liquidare il vecchio personaggio e sostituirlo di fatto con una controfigura di lusso. Harry Truman è a tutti gli effetti “presente in assenza” in questa stagione: nominato, oggetto di ricerche, attenzioni, saluti e persino indirettamente protagonista di dialoghi (da un capo all’altro del telefono, mentre ci viene mostrato e fatto udire solo l’interlocutore); a tal punto che, possiamo dire, Harry aleggia su quasi tutte le sequenze ambientate nella cittadina, quasi fosse anche lui divenuto (o in procinto di diventare) un altro fantasma vagante in quello strano posto. Un fantasma benevolo ma estremamente malinconico: perché il suo ricorrere nei discorsi dei personaggi senza poter davvero comunicare o agire, il peso del suo esserci senza esserci, è una delle più tristi conferme dell’impossibilità a resuscitare il mondo di Twin Peaks come era un tempo, a proseguire la storia da dove l’avevamo lasciata.
Che tale sensazione sia l’esito di una deliberata strategia creativa degli autori lo dimostra il gioco sottile di riflessi deformanti che i nuovi episodi attuano nel presentare il personaggio di Frank. Quest’ultimo è, in un certo senso, l’ennesimo doppelgänger della serie, nel continuo cortocircuito di analogie e differenze col proprio fratello-predecessore. Frank è buono e onesto come il fratello, ma assai più schivo e corrucciato di quest’ultimo, non ha una bella (ma pericolosa) amante come Josie Packard/Joan Chen, ma una moglie con cui è in crisi dopo la tragica morte del figlio. È uno sceriffo Truman davvero aggiornato all’invecchiamento (e perciò alla metamorfosi) di ciò che la serie era: e questo cambiamento viene esposto, anche qui, senza addolcirlo, ma anzi rimarcandone la malinconia, proprio nella scelta di ricorrere a un personaggio che costantemente rimanda al vecchio Harry senza però essere affatto sovrapponibile a lui. Non a caso sono più d’una le sequenze in cui il nostro punto di vista tende a identificarsi con quello di un personaggio disorientato dal contrasto tra vecchio e nuovo Truman. Pensiamo, ad esempio, al dialogo (nel primo episodio) tra l’assicuratore venuto in cerca dello “sceriffo Truman” e Lucy, che lo spiazza chiedendogli di specificare «quale dei due».
Di per sé questa sequenza altro non sarebbe che uno dei consueti brani di umorismo nonsense cari alla serie e più in generale a Lynch; essa tuttavia assume un particolare valore metafilmico in virtù del rapporto tra il suo contenuto e la collocazione nell’economia degli episodi. Si tratta infatti della prima sequenza in cui, dopo più di venticinque anni, rivediamo l’ufficio dello sceriffo di Twin Peaks: è il nostro “ritorno” laggiù. Entriamo perciò insieme al visitatore, incoraggiati dal fatto che tutto sembra abbastanza simile a come lo ricordavamo (l’insegna nella prima inquadratura, Lucy ad accoglierci nella seconda), e non possiamo non chiedere anche noi, per prima cosa, dello sceriffo Truman. Il dialogo che segue, allora, è un dialogo tra noi e la nuova serie, rappresenta la nostra confusione rispetto alla soluzione adottata: lo sceriffo Truman non c’è, ma non se ne è nemmeno andato: ce ne sono due.
Il cerchio si chiude nel penultimo episodio, con l’agente Cooper, finalmente davvero “tornato” in tutti i sensi, che telefona all’ufficio dello sceriffo: quest’ultimo non può che rispondere al telefono dichiarando «Sono Truman», e facendo cadere (anche) Cooper nell’equivoco. L’agente istintivamente dichiara: «Harry, sono Coop-», per poi bloccarsi rendendosi conto che qualcosa non va, che nulla è davvero come prima, che anche lo “sceriffo Truman” non è più lui. E, certamente, dopo un’intera stagione, siamo ben consapevoli, a differenza di Cooper, dello scarto: ma ciò non vuol dire che esso abbia cessato di turbarci.
Forse l’eccezione più significativa alla strategia che abbiamo descritto in questo paragrafo riguarda il personaggio di Donna Hayward. La migliore amica di Laura era un personaggio fondamentale del vecchio Twin Peaks, ma in questa nuova stagione non solo non compare, ma non viene quasi mai menzionata, non si gioca a riproporla in qualche modo “trasfigurata” e l’unica rievocazione significativa della sua presenza è forse nella doppia citazione durante la performance musicale di James nell’episodio 13. Ma è un’eccezione non meno interessante della regola, in particolare per un aspetto: Donna è stata l’unico comprimario del vecchio Twin Peaks ad aver subito la procedura del recasting. Nel passaggio tra la seconda stagione e il film del 1992, infatti, il ruolo era passato da Lara Flynn Boyle all’assai meno memorabile Moira Kelly.
Senza arrischiarci a ipotizzare che tale infelice eccezione abbia in qualche modo influito sulla scelta degli autori di non riproporre un personaggio così rilevante del vecchio Twin Peaks, possiamo comunque rimarcare un dato: un’eventuale riproposizione “trasfigurata”, o comunque sottolineante lo scarto con la vecchia versione, del personaggio di Donna non avrebbe avuto lo stesso effetto sortito nei casi citati. Sarebbe stato da una parte meno destabilizzante, perché già una volta abbiamo visto Donna “cambiare”, anche se nella modalità ambigua del recasting; e però, dall’altra, sarebbe stato anche meno integrabile nella paradossale “magia” diegetica di questa (nuova) serie, proprio perché il ricordo di quel recasting avrebbe costituito nella nostra memoria un elemento di disturbo, di scarto: ma uno scarto ben diverso da quella poesia della metamorfosi perturbante, del bizzarro intrecciarsi di continuità e discontinuità nello scorrere del tempo, che è al centro della nuova incarnazione di Twin Peaks.
3. «È solo un cambiamento, non una fine»
Un altro fondamentale terreno di indagine rispetto alla gestione dello scarto temporale tra vecchio e nuovo Twin Peaks è quello riguardante la tematizzazione e rappresentazione dell’invecchiamento dei personaggi “storici” interpretati dai medesimi attori di allora. La questione chiama in causa inevitabilmente il problema della morte e del suo statuto ambivalente nell’immaginario di Frost e (soprattutto) di Lynch. Come già accennato, ci sembra che il revival punti a sottolineare, o per lo meno a non nascondere, i segni del tempo sui corpi e sui volti dei vecchi protagonisti e comprimari, inserendo questo dato in un più generale discorso sulla vecchiaia e sulla morte, di cui si mettono in luce sia la componente dolorosa, traumatica, paurosamente ignota, sia il loro contraltare positivo, come naturale passaggio verso qualcosa d’altro e di nuovo, che proprio per questo esalta paradossalmente la vita anziché negarla. Personaggi e situazioni del nuovo Twin Peaks mettono in evidenza ora l’uno ora l’altro aspetto, e non di rado entrambi contemporaneamente.
Quando si parla del rapporto tra vecchiaia e morte nella poetica di Lynch, la memoria non può che tornare al suo Una Storia Vera (The Straight Story, 1999): come ci ricorda Alvin Straight, l’anziano protagonista di quel film, non c’è granché di positivo nel «trovarsi cieco e zoppo nello stesso tempo», cioè nell’essere vecchi. Eppure, come rivela la parabola di Alvin in cammino per ricongiungersi col fratello altrettanto anziano e malato, proprio nell’ineluttabile approssimarsi della morte c’è forse la più grande opportunità di riconciliarsi la vita: c’è l’inizio di un viaggio per ricomporre ciò che i conflitti della giovinezza avevano diviso, per ritrovare la parte più autentica e luminosa di sé, per riscoprire l’umanità nelle sue fratture e contraddizioni, ma anche nella sua capacità di rimettersi in discussione e risollevarsi. La morte ci spinge a non rimandare più quel viaggio, ed è essa stessa viaggio, ascesa. Ciò non vuol dire che tale viaggio sia esente da ferite, malinconie e timori. Uno dei personaggi che, ci pare, esprimono nella maniera più struggente e spiazzante il dolore del tempo trascorso nel nuovo Twin Peaks è quello di Audrey/Sherilyn Fenn.
Ci pare, addirittura, che la sottotrama di Audrey, bizzarra e criptica come poche altre in questa nuova stagione, possa essere interpretata (anche) come una disperata allegoria della vecchiaia, del subire (senza riuscire ad accettare) il tempo che passa. L’attesissima ricomparsa di Audrey viene ritardata fino al dodicesimo episodio della stagione, e anche lei ovviamente è cambiata, ma non solo in senso fisico: la vitalità ribelle e sensuale della giovane figlia di Benjamin Horne adesso è come ripiegata su se stessa, scaduta nell’aggressività capricciosa di una moglie insoddisfatta. Negli insulti esagerati che Audrey vomita addosso al marito c’è solo una pallida eco di quel carattere passionale e indomito, perché a differenza di allora la passionalità di Audrey non la porta ad agire, spesso da sola e in contrasto con gli altri personaggi. Questa Audrey, malgrado le violente sfuriate, è una persona tremendamente fragile, che per risolversi a uscire di casa impiega quattro episodi e si rivela dipendente dalla presenza e dal supporto del marito che tanto ingiuria.
Ma soprattutto, l’intera dinamica risulta totalmente slegata dalla vicenda principale che, bene o male, si delinea nel corso della stagione. Se molte delle situazioni parallele e apparentemente scollegate introdotte nei primi episodi svelano via via punti di contatto, quella di Audrey resta priva di agganci espliciti con le altre sottotrame, né lei si incontra con nessuno dei vecchi comprimari. Certo proprio questo “isolamento” può spingere e ha spinto a interpretazioni che ne ribaltano i presupposti, fino a vedere nelle sequenze su Audrey l’indizio chiave per spiegare la storia narrata dalla serie nel suo complesso. Ma, senza entrare nel merito di queste letture, ci sembra che proprio in tale solitudine si possa scorgere un elemento di quel discorso sulla vecchiaia che dicevamo. La marginalità (apparente) della trama di Audrey è la marginalità di chi è rimasto tagliato fuori da tutto a causa dello scorrere del tempo: tra un passato ormai dissoltosi e un presente in cui non ci si riesce a integrare, nella tragica impossibilità di comunicare con entrambi.
L’epilogo della trama di Audrey sembra andare proprio in questa direzione: nell’inaspettato, irreale invito del presentatore del “Roadhouse” a danzare, probabilmente solo immaginato dalla donna, si può vedere la velleità di rifugiarsi nel sogno di un passato perduto. In questa unica ed effimera parentesi positiva, Audrey si lascia finalmente andare, danza (o sogna di danzare) come un tempo, sulle stesse note che la accompagnavano durante le vecchie stagioni. Ma l’interruzione del sogno-incanto è brutale, e la rissa scoppiata improvvisamente tra due avventori del locale ci riporta all’asprezza dell’effettivo passaggio di tempo: un tempo che non chiede il permesso per scorrere via strappandoci da ciò che eravamo, dai legami e dai sogni di una volta. Il trauma è tale da catapultare noi e la stessa Audrey in quell’ultima inquadratura del sedicesimo episodio su cui si discuterà per chissà quanto ancora: dove si trova davvero Audrey? Possiamo dire che tutto quel bianco, quell’espressione di sconcerto e quello specchio, testimone emblematico del trascorrere degli anni, sembrano rimandare con ancora maggiore evidenza a un isolamento, a una reclusione: forse proprio alla reclusione di un invecchiamento rifiutato ma irrimediabile, nella dolorosa consapevolezza di chi siamo diventati e di ciò che non siamo né saremo più.
Ma tutto in Twin Peaks è duplice, e anche la vecchiaia e la morte hanno un secondo volto. Se Lynch insiste tanto nel rappresentarci con la massima evidenza lo scorrere del tempo, il suo effetto sui personaggi e le situazioni che conoscevamo, non lo fa solo per infierire crudelmente sul trauma dello scarto. Anche qui, infatti, si tratta di resuscitare quel mondo di venticinque anni fa non come un feticcio imbalsamato ma come un universo vivo, e perciò in costante cambiamento. La materia e la vita (e in Twin Peaks tutta la materia è permeata di vita) sono cambiamento, da questo non si scappa, e non c’è cambiamento, nel mondo e nella poetica di Lynch, che non abbia interesse e dignità a venire espresso, sia pure quello di un corpo in decomposizione. Dichiara Lynch nel suo In acque profonde: «Hai mai visto un animaletto putrefatto? Amo osservare cose simili, tanto quanto mi piace osservare da vicino la corteccia di un albero, un piccolo insetto, una tazza di caffè o una fetta di torta. Ti avvicini a osservarli, e scopri che le strutture sono meravigliose». C’è qualcosa di meraviglioso, sempre, nel cambiamento continuo dell’universo, anche nei cambiamenti che ci paiono più sgradevoli. Nel nuovo Twin Peaks rappresentare l’invecchiamento vuol dire rappresentare il cambiamento per eccellenza. Per questo deve essere sottolineato e non sottaciuto o edulcorato. Per questo nella vecchiaia, accanto al dolore e alla malinconia che essa comporta, ci sono momenti di dignità e serenità inarrivabili per gli anni della giovinezza.
C’è cambiamento, dunque vita e pieno diritto ad essere rappresentati, nei capelli bianchi di Hawk, ma anche nei chili in più di Lucy e Shelly e nella pancia che sporge dalla camicia di Andy. Così come c’è una profonda serenità nel cameo del Dr. Hayward che nell’episodio 7 dialoga via Skype con Frank. Anche qui la vecchiaia ha qualcosa di malinconico, perché costituisce una barriera in più tra noi e il personaggio che conoscevamo: Doc Hayward infatti è doppiamente “lontano”, confinato, per noi spettatori, entro uno schermo nello schermo, e il ricorso alle tecnologie telematiche per creare il breve contatto sottolinea per contrasto (e non senza un pizzico di ironia) quanto il mondo (e il modo di comunicare) sia mutato in venticinque anni. E però c’è anche una serenità autentica nell’immagine dell’anziano medico che trascorre i suoi giorni a pescare, ormai chiamatosi fuori dagli intrighi fisici e metafisici che ancora coinvolgono gli altri. Una serenità riassunta perfettamente in quel congedo rivolto da Frank: «Resta a pescare sulla riva più soleggiata».
Il momento più intenso di questa poetica della vecchiaia e della morte portata avanti dal nuovo Twin Peaks è raggiunto però nella gestione del personaggio di Margaret Lanterman alias la “Signora Ceppo”. Nella scrittura e rappresentazione di questo personaggio, il mondo immaginario di Twin Peaks e quello reale arrivano a sovrapporsi: Catherine E. Coulson, l’interprete della signora Ceppo, è morta prima ancora della fine delle riprese, e al momento di girare le scene era effettivamente malata e morente come il personaggio da lei interpretato. Anche e specialmente in questo caso il passaggio doloroso del tempo non è occultato ma mostrato per quello che è: Margaret/Catherine telefona tra un episodio e l’altro a Hawk per riferirgli i criptici messaggi ricevuti dal suo Ceppo. La vediamo (le vediamo) sulla poltrona senza più capelli e con il catetere al naso mentre scandisce le puntate con i suoi enigmi, fino all’ultima telefonata, nell’episodio 15, dove si congeda da Hawk e dagli spettatori annunciando la sua morte.
Qui il cortocircuito tra realtà e finzione raggiunge, ci sembra, uno dei suoi apici, fino a un eccezionale ribaltamento della prospettiva: non è più (solo) la morte di un attore del vecchio cast a interferire prepotentemente nelle strategie degli artisti, ma una scelta creativa di questi che, prendendo coraggiosamente atto della mortalità di un personaggio (dell’attrice che la incarna) e tematizzandola, si pone come chiave di lettura della prossima morte dell’interprete nel mondo reale.
E la chiave di lettura che ci viene suggerita è la sintesi del discorso ambivalente sulla morte portato avanti da Lynch in Twin Peaks (e non solo): «Tu la conosci la morte», dice la signora Ceppo a Hawk nella sua ultima ambasceria dai regni metafisici della serie, «È solo un cambiamento, non una fine». E, ciononostante, aggiunge, «c’è paura… paura nel lasciarsi andare». Dall’altra parte, Hawk non può che commentare l’annuncio iniziale con un «Mi dispiace», pieno di calma e rassegnata malinconia, come di fronte al più doloroso, misterioso e però necessario cambiamento della natura; per poi ascoltare con rispettoso silenzio le ultime parole e indicazioni dell’amica, fino allo scambio finale della «buonanotte» tra i due.
Anche il regista commenta silenziosamente l’avvenuta perdita, prolungando per diversi secondi l’inquadratura su Hawk. Il dolore del distacco che ogni morte comporta è tutto in quella manciata di secondi su cui indugia la ripresa, nella consapevolezza che il montaggio non staccherà più verso l’anziana donna all’altro capo del telefono. Valeva la pena di resuscitare un personaggio per vederlo morire insieme alla sua interprete? Forse sì, perché questo affrontare così radicalmente la morte ha reso un po’ più viva quella finzione che è il mondo di Twin Peaks. Ma questo paradosso continuerà a ferirci, ancora e ancora.
4. «In che anno siamo?»
Sin qui abbiamo tentato di suggerire come il discorso sull’ineludibilità dello scarto tra passato e presente permei il nuovo Twin Peaks a livello sia tematico che delle scelte di rappresentazione. Vorremmo porre adesso, come ultimo, significativo luogo della nostra indagine, lo spiazzante e discusso “doppio finale” della stagione. Sono state fornite diverse e contrastanti interpretazioni di quanto visto nell’ultimo episodio e mezzo, e non abbiamo qui la pretesa di proporre una lettura dell’epilogo che includa e risolva tutti i numerosi indizi disseminati in questo ennesimo enigma lynchiano. Tuttavia, come preannunciato, vogliamo gettare anche noi uno spunto interpretativo, che potrebbe illuminarci almeno in parte su quel segreto sussurrato da Laura all’orecchio di Cooper.
Al di là che si interpreti la doppia conclusione come ennesima e aperta complicazione delle carte in tavola, tragico epilogo dell’intera vicenda o addirittura paradossale e criptica risoluzione positiva, un dato ci pare comunque imprescindibile: l’impossibilità per Laura di tornare a casa, di ricongiungersi con i suoi cari e con se stessa, di venire a patti col suo originario ruolo di vittima sacrificale, almeno per quello che ci è dato vedere e (soprattutto) udire. Qualunque lettura si possa dare del finale, resta il fatto che Laura Palmer prende congedo da noi con un urlo, con quell’urlo terribile, angosciante e angosciato, metonimia della tragedia che ciclicamente si consuma, dove per contrasto il penultimo episodio ci aveva fatto intravedere la possibilità di uno sviluppo alternativo, in cui Laura venisse preservata dalla morte violenta e riportata a casa dal Cooper del futuro. Ma non è appunto, quest’ultima, la conclusione con cui sceglie di salutarci Lynch. Possiamo ricorrere a tutte le teorie sui paradossi temporali e affini per ribaltare questo dato e sperare che in qualche modo, a scapito delle apparenze, Laura sia davvero riuscita a salvarsi e a trovare la pace, ma non è comunque ciò che ci viene mostrato nelle ultime inquadrature: non è con un’immagine di serenità e quiete ristabilita che ci congediamo da Laura e dal nuovo Twin Peaks: e questo aspetto, che è percettivo prima che logico, ci pare non aggirabile.
Posto questo dato, non possiamo che domandarci: cosa non ha funzionato e perché, in quell’ipotesi di finale felice e risolutore che abbiamo intravisto nel penultimo episodio, tra il motivo classico di Badalamenti e la passeggiata verso casa di Cooper-Orfeo che porta via Laura-Euridice dal suo fato di Oltretomba? La risposta che proveremo a dare rompe (come del resto tutto il discorso che qui abbiamo portato avanti) il confine tra mondo immaginario interno alla serie e mondo esterno, “reale”, che però tanto influisce e ha influito, anche violentemente, sugli sviluppi e i destini della finzione.
Il lieto fine mancato del penultimo episodio non è solo un’ipotesi, da parte di Cooper e Lynch stesso, di riscrittura dell’intera parabola di Twin Peaks nella prospettiva di salvare Laura. È anche, con ogni evidenza, un’ipotesi di gestione dello scarto temporale tra i due Twin Peaks che va in totale controtendenza con la linea che abbiamo visto prevalere sino ad ora. Per spiegarci meglio: abbiamo notato come, nel nuovo Twin Peaks, Lynch punti in ogni modo a sottolineare il dato del tempo trascorso, il fatto che il revival non potrà mai riportarci indietro nel tempo, ignorando che alcuni personaggi siano nel frattempo invecchiati, e che altri debbano “trasfigurarsi” per l’impossibilità a coinvolgere gli attori. Ragion per cui, come abbiamo visto, non si cerca di minimizzare lo scarto temporale, ma anzi lo si enfatizza e valorizza come elemento tematico centrale e sfida espressiva.
Il lieto fine abortito del penultimo episodio, al contrario, ci propone un modo totalmente diverso di gestire il problema: attraverso una pluralità di espedienti, infatti, dalle angolazioni al bianco e nero alla messa fuori fuoco, la sequenza della passeggiata “salvifica” tra Cooper e la Laura del passato crea l’illusione, quasi perfetta, che il tempo sia davvero tornato indietro. Per alcuni minuti Laura/Sheryl Lee è tornata ad essere la diciottenne delle prime stagioni e del film, e non la donna visibilmente invecchiata che è ricomparsa di fronte a Cooper nella Stanza Rossa, venticinque anni dopo. Lynch, insomma, con questa sequenza, mette in campo due illusioni, una diegetica (Cooper cambia il corso della Storia salvando Laura) e una rappresentativa: quest’ultima consistente in nuove sequenze con protagonista Laura, dove però abbiamo l’impressione che questa sia ancora identica all’icona immortale del nostro immaginario.
Tuttavia entrambe queste soluzioni non sono solamente irrealizzabili, se non come illusione momentanea: sono addirittura “sbagliate”. Abbiamo visto infatti che nel nuovo Twin Peaks la messa in evidenzia dello scarto, del cambiamento intercorso tra ieri e oggi, è considerato, ormai, l’unico modo per riproporre la vecchia serie come qualcosa di ancora vivo, e non come un catalogo di icone immortali ma senz’anima. Quella Laura del passato che ribalta positivamente il suo percorso è “finta”, non perché manchi di “realtà” (tutto è ovviamente finzione in Twin Peaks) ma perché manca di “verità”, anche e soprattutto dal punto di vista rappresentativo: è un’illusione di personaggio, uno sbiadito simulacro di simulacro. Forse, quella Laura sarebbe potuta esistere venticinque anni fa, alla fine di un’altra possibile terza stagione che però non c’è stata, e questo revival venticinque anni dopo è, deve essere e soprattutto vuole essere qualcosa di totalmente diverso da un ritorno indietro nel tempo per proseguire, come se niente fosse accaduto, quanto era stato interrotto. E infatti quella Laura illusoriamente “ringiovanita” sparisce, nello stesso rumore di vento e nello stesso urlo che avevamo udito nel secondo episodio, dopo l’inascoltabile segreto sussurrato all’orecchio di Cooper.
Dunque, in sintesi, non potremo mai vedere la Laura del passato ritornare a casa accompagnata da Cooper, perché quella Laura che noi tutti ricordiamo non esiste più, e pretendere di resuscitarla così come era significherebbe negare che Twin Peaks possa costituire oggi, venticinque anni dopo, un mondo ancora vivo e in cambiamento, piuttosto che un mero ripiegamento consolatorio nel passato. Certo che Laura Palmer è “viva” (“è morta, tuttavia vive”), ma come tutti i personaggi di Twin Peaks venticinque anni dopo, vive in quanto non è più lei.
L’ultimo episodio, col suo ulteriore e assai più straniante “finale”, ci offre degli indizi ulteriori in questa direzione. Innanzitutto, l’alter-ego di Laura che ci troviamo davanti è di nuovo la Laura/Sheryl Lee aggiornata al “Meanwhile”, con tutti i segni dei venticinque anni in più che ne modificano i lineamenti. La realtà alternativa dove Cooper continua a cercarla è, in contrasto col finale abortito del precedente episodio, una realtà dove i luoghi e personaggi del vecchio Twin Peaks massimamente “non sono più loro”. Tutti infatti hanno un’identità alternativa, Laura è Carrie Page, Cooper e Diane sono Richard e Linda; e oltretutto Cooper, come è stato spesso notato, si comporta in modo sensibilmente diverso dalla sua versione “classica”, pur essendo ancora consapevole della sua originaria missione.
Pensiamo poi alla lunga sequenza del viaggio in macchina di Cooper e Laura/Carrie, fatta di ripetute e insistite inquadrature sui due all’interno del veicolo e sulla strada che scorre davanti a loro, senza che accada, all’apparenza, nulla di rilevante: la sequenza ci comunica il peso dello scorrere del tempo, aggravato dal fatto che noi spettatori (come già da venticinque anni) stiamo attendendo con ansia una risoluzione che non arriva, e che più il tempo passa meno possibilità ci sono che arrivi davvero. Aggiungiamo poi che la realtà alternativa in cui si muovono Richard/Dale e Laura/Carrie rimanda, in qualche modo, al nostro mondo, il mondo fuori dalla finzione dove si è verificato il cortocircuito, il “delitto” che ha impedito venticinque anni fa la prosecuzione della serie. Un indizio su tutti, al riguardo, è il fatto che Alice Tremond, la proprietaria della casa dei Palmer nella realtà alternativa, sia interpretata da Mary Reber, ossia la vera proprietaria di quella casa nella realtà odierna.
Il cortocircuito tra realtà alternative in questo “doppio finale”, allora, potrebbe rispecchiare il cortocircuito tra il mondo della finzione, del testo, della diegesi, e il nostro mondo che sulla finzione influisce. E, nel nostro mondo, lo si ribadisce una volta di più, sono passati venticinque anni: non a caso, la domanda fatale di Cooper, prima dell’ultimo urlo di Laura, è «In che anno siamo?». Allora il secondo ritorno mancato, ci sembra, vale anche come messa a nudo, crudele e necessaria, dell’impossibilità di scrivere la storia di quel ritorno a casa (non solo) di Laura senza scontrarsi con le contraddizioni di un mondo (fuori dalla finzione) che nel frattempo è cambiato, di anno in anno, con tutte le conseguenze che abbiamo visto.
Forse, allora, in quelle parole “non dette ad alta voce” di Laura a Cooper c’è qualcosa di tutto questo: il vero segreto è l’impossibilità a salvare quella Laura di venticinque anni fa perché, se Twin Peaks torna, ha senso che lo faccia non per portarci indietro nel passato, per cristallizzarci nella venerazione di icone “sacre” ma vuote, bensì per prendere atto del tempo trascorso e sperimentare le conseguenze di ciò sul revival. La Laura e il Twin Peaks di venticinque anni fa sono morti, tuttavia la Laura e il Twin Peaks di oggi vivono, esponendo come principale segno di vitalità il loro cambiamento, il peso struggente ma anche il fascino disorientante dello scarto temporale. E, certo, se il nuovo segreto di Laura fosse (anche) questo, non potrebbe essere detto ad alta voce: è qualcosa di troppo grande anche per il reame metafisico di Twin Peaks. È qualcosa che potrebbe solo essere sussurrato senza farsi udire da noi, oppure, all’opposto, gridato: un urlo, non a caso, talmente potente da mettere fine alla stessa rappresentazione, allo stesso revival. Lasciandoci di nuovo soli: a porci domande, a ipotizzare strane risposte, mentre il tempo continua a passare…
Emanuele Bucci