Il Pinocchio Di Matteo Garrone – “Fili Avevo Ed Or Non Più, Eppur Non Cado Giù”.
Considerato un libro per bambini, pieno di meraviglia e di lezioni importanti da apprendere, il romanzo di Collodi “Le avventure di Pinocchio” nel tempo è stato adattato in vari modi, ma quasi tutti hanno mantenuto l’impronta favolistica, leggera e mirata ad un pubblico più giovane.
Nel 1940 la Disney presenta il suo lungometraggio Pinocchio, incentrato sulla figura del burattino che scopre la vita, seguito dalla sua coscienza Grillo Parlante, che impara dai suoi errori ad essere migliore e riesce infine a dimostrare alla Fata Turchina di meritare di essere un bambino vero, tramite un atto di altruismo finale nato dal salvataggio del padre dal ventre della balena. Del ’72 sono sia la serie animata giapponese Le nuove avventure di Pinocchio che la miniserie italiana diretta da Comencini. Sebbene peculiare di quest’ultima sia la scelta di non vincolare il protagonista in un costume da burattino, ma farlo trasformare in burattino solo quando si comporta male, entrambe si incentrano sulla figura del burattino, sulle meravigliose avventure e sulle scoperte di vita.
Nel 2002 una lettura ancora diversa dell’universo di Collodi porta sul grande schermo Pinocchio diretto e interpretato da Roberto Benigni, e anche se cambiano l’approccio e l’atmosfera, il dinamismo proprio della recitazione di Benigni è messa al servizio delle tematiche legate alla scoperta e alla crescita proprie di questo filone. Alla fine del 2019 è uscito nelle sale l’ultimo adattamento del romanzo di Collodi, che non solo risolve, grazie all’avanzare della tecnica del trucco cinematografico, i problemi di movimento e intralcio alla recitazione che i costumi imponevano ai piccoli attori (presentando un protagonista reso di legno dal solo make-up), ma che allo stesso tempo promette innovazioni stilistiche e nei contenuti.
Il film infatti si apre con un panorama del tutto nuovo: un uomo al lavoro, un falegname, intento ad intagliare del legno, finché la macchina da presa avvicinandosi ci mostra la verità; Geppetto non sta intagliando, ma sta tentando di recuperare del formaggio da una forma ormai esaurita, con i suoi strumenti di lavoro, un diverso modo di impiegarli per ricavare del cibo.
Un inizio incisivo, che ci mette di fronte da subito a qualcosa di diverso e potente. Geppetto, vestito di un semplice cappotto non molto caldo per l’inverno, esce di casa in cerca di cibo. Con quello che è il marchio di fabbrica della comicità di Benigni, lo vediamo proporsi in una taverna per riparare piccoli danni, non necessari e appositamente ingigantiti per sottolinearne l’urgenza e la conseguente ricompensa, che viene comunque elargita per la solidarietà dei compaesani.
Comicità resa amara dalla vera situazione che il protagonista vive e che lo spettatore ha visto, che non stona con quest’ultima, ma che la rende ancora più efficace. Un uomo che cerca un’opportunità, un’occasione per riscattarsi.
Si tratta di un primo contatto con il personaggio molto diverso da quello a cui ci avevano abituato i film precedenti, in cui Geppetto iniziava dove iniziava Pinocchio, e poco o niente ci veniva mostrato della sua vita prima del burattino.
Qui l’uomo assume connotazioni proprie, che saranno l’inizio del racconto principale e si intrecceranno a doppio filo con la storia di Pinocchio. Il burattino è proprio la nuova vita che Geppetto sta cercando, anche se non nel modo in cui crede: vorrebbe diventare creatore di burattini, invece grazie a del legno magico si ritrova con gioia ad essere padre, con tutti i problemi che questo comporta. Per vestirlo deve rinunciare alla sua coperta, per mandarlo a scuola e comprargli i libri rinuncia al suo cappotto, ma questo non sembra nuocergli, tanta la gioia che Pinocchio gli porta.
Proprio da qui inizia la storia di Pinocchio. Da un sacrificio ripagato con la leggerezza e l’egoismo propri dell’infanzia, Pinocchio vende il libro di scuola per andare allo spettacolo dei burattini.
Da questo primo errore inizia il suo viaggio alla scoperta del mondo esterno, mondo sempre più marcio man mano che ci si addentra.
“L’industria” dello spettacolo dei burattini di Mangiafuoco, in cui il capo è pronto a sbarazzarsi dei suoi “dipendenti” per i propri interessi, degli ultimi arrivati o dei collaboratori storici non fa differenza.
Ma ancora qualcosa in Mangiafuoco di umano sopravvive; non solo lascia andare Pinocchio, ma lo rimanda a casa con un piccolo tesoro. Sarà proprio il lascito di Mangiafuoco che attirerà verso Pinocchio il Gatto e la Volpe, truffatori che promettono facili guadagni per poi sparire al momento opportuno. Truffatori, ladri e potenziali assassini, non fosse per l’intervento della Fata che lo salva.
Un’altra novità di questo film è proprio la Fata Turchina, non più adulta e giudicante, ma a misura di bambino, saggia ma anche giovane e spensierata. A casa della Fata, Pinocchio incontra i due merli, medici che non concordano sulla diagnosi da emettere e simboli di una malasanità che li lascia nel dubbio sul destino della malattia di Pinocchio. Il momento di abbandonare la Fata però arriva e il burattino incappa di nuovo nella stramba coppia di truffatori, che stavolta riescono davvero a derubarlo.
Non solo Pinocchio ha lasciato un luogo sicuro e delle persone che gli volevano bene, come ha fatto con Geppetto, ma si ritrova quasi arrestato malgrado egli sia non solo innocente ma parte lesa; solo i colpevoli vengono assolti e rilasciati.
Tornando al suo paese, scopre della partenza del padre alla sua ricerca, e qui inizia la seconda parte del suo viaggio, alla scoperta di un’altra parte del mondo e di un’altra parte di sé stesso, nella speranza di ritrovare Geppetto.
Arrivato in un paese di pescatori, ritrova la Fata, ormai cresciuta, che gli concede una seconda possibilità. Anche se la scuola vede scene di abusi sui bambini, Pinocchio si applica con l’aiuto della Fata, ma l’amicizia con Lucignolo lo fanno deviare nuovamente dal percorso.
Ritirato dalla scuola e mandato a lavorare, Lucignolo scappa nella notte salendo sul carro verso il Paese dei Balocchi, e Pinocchio deciderà di seguirlo.
Il famoso paese dove i bambini non devono studiare ma solo divertirsi, non ha niente dello splendore che i precedenti film ci avevano mostrato. Non è più il parco giochi spettacolare e colorato, ma solo un campo con costruzioni di paglia e fango e giochi poveri. Per questo Pinocchio ha abbandonato la Fata, per questo viene punito e, diventato asino, venduto al circo che si sbarazza di lui affogandolo non appena non è più in grado di essere utile.
Qui Pinocchio ha imparato la sua ultima lezione, viene salvato dalla Fata e in mare, nella pancia del pescecane, salva suo padre e un tonno che li riporta a terra. Con Geppetto malato, Pinocchio inizia a lavorare come guardiano di pecore e a provvedere al padre, che riesce a rimettersi. Grazie a questo viene premiato e tramutato in un bambino vero.
Giunto alla fine del suo percorso, il lavoro di Garrone sul Pinocchio di Collodi si mostra in tutta la sua pienezza a chi guarda e pellicola e romanzo sembrano muoversi in consonanza in virtù della rappresentazione dell’elemento didattico che regge la fonte di partenza.
Ogni avventura, ogni luogo, ogni incontro, rappresentano qualcosa di diverso nel percorso evolutivo del piccolo burattino.
Geppetto e il paese, i sacrifici per studiare e la promessa di un futuro migliore per i figli, sono, in un certo senso, correlativi oggettivi di un passato quasi mitico, sono la rappresentazione dei nostri nonni e genitori, di quello che hanno fatto per noi e per il nostro futuro, dei sacrifici di cui noi siamo stati inconsapevoli per gran parte della nostra vita.
Questo nuovo Pinocchio è quindi il racconto delle generazioni precedenti alla nostra, della loro scoperta da parte di quelle più giovani e della crescita che noi stessi abbiamo fatto attraverso di loro.
Tutto prende vita in un’Italia arcaica nell’aspetto, ma attuale nei contenuti (malasanità, abusi nelle scuole, adescatori di bambini, tribunali dove non c’è più giustizia).
Si parla al passato, lo si rappresenta ma il film è allo stesso tempo il racconto della crescita della nostra generazione che deve imparare e provvedere a se stessa e ai suoi genitori.
Questa crescita è incarnata dalla maturazione della Fata, qui vero termine di paragone dell’evoluzione del protagonista e della sua coscienza. Più Pinocchio impara, più la Fata cresce e diventa saggia (e se vogliamo anche triste) finché Pinocchio, appreso ogni aspetto del mondo, scappa dall’incontro finale col Gatto e la Volpe e si trasforma in un bambino vero. Pinocchio è cresciuto, è a suo modo diventato adulto e può iniziare una nuova fase della sua vita, così come facciamo noi.
Garrone tratteggia il quadro di un’Italia antica, ma non così tanto, con ambientazioni rurali ma afflitte da problemi contemporanei, con la realtà dei quali prima o poi tutti dobbiamo scontrarci, uno scontro che inevitabilmente ci porterà a maturazione.
Il racconto che Garrone ne fa non è mai però affrontato attraverso gli occhi del protagonista. Non vediamo mai il mondo dal punto di vista di Pinocchio, filtrato attraverso una lente giocosa e infantile ma la realtà ci aggredisce in tutta la sua negatività: pensiamo al Paese dei Balocchi che si mostra per quello che è, nient’altro che paglia e fango.
Lo spettatore è sempre e solo esterno alle vicende, non gli resta che guardare gli errori del protagonista e imparare da essi. Solo con la Fata il mondo diventa a misura di bambino, chi guarda è sul suo stesso piano, la Fatina è alla nostra altezza, a differenza degli altri adulti che ci guardano sempre dall’alto in basso, in posizione di subalternità.
Un mondo quindi troppo grande per noi, ma nel quale ci infiliamo a forza e attraverso il quale impariamo a vivere.
Garrone crea, utilizzando il racconto di Collodi, la storia simbolica della nostra infanzia e della nostra crescita, si rivolge a noi come si farebbe a bambini cresciuti troppo presto a causa delle difficoltà della vita, che ci hanno cambiato e fatto crescere man mano che le abbiamo affrontate, ora che siamo adulti, ora che siamo matura, non ci resta che rendere qualcosa a coloro che hanno fatto del loro meglio per farci crescere felici e amati.
Un fantastico racconto generazionale, che parla più allo spettatore adulto, che rivede la vita dei propri nonni e genitori (e che in parte inizia a rivedere anche la propria vita) che agli spettatori più piccoli, immersi per la prima volta in un mondo cupo e pieno di ombre. Un racconto che fa esso stesso tesoro della sua tradizione cinematografica ma che, come il suo protagonista, si emancipa e scrive la sua storia, abbandonando i fili, ma stando brillantemente in piedi anche senza.
Sabrina Podda