Watchmen (2019): il tempo che (non) scorre e il coraggio di un sequel
È il 2003: l’intervista di Mike Cotton ad Alan Moore, lo scrittore di Northampton che ha rivoluzionato il mondo dei comics, si chiude con un emblematico scambio di battute: «Come vanno le cose con Watchmen 3?». «Prego?». «Be’, tutti chiedono di Watchmen 2, così pensavo di cambiare un po’». «Molto spiritoso». È il 1986: i primi capitoli di Watchmen, miniserie (poi edita come graphic novel) scritta da Moore e disegnata da Dave Gibbons, irrompono nel panorama fumettistico e lo sconvolgono: tra supereroi decostruiti, satira della storia (e cultura pop) americana, una maturità (nei temi, nello storytelling, nel disegno dei personaggi e dell’universo in cui si muovono) inedita per quella che non tutti sono (e saranno) disposti a definire la nona arte. Difficile dire se sarà più atteso (e temuto) un seguito di quel (capo)lavoro o il suo adattamento per un altro medium.
È il 20 ottobre 2019: va in onda per la HBO il primo episodio di Watchmen, serie tv sviluppata dal co-autore di Lost Damon Lindelof. Come lasciavano presagire i primi trailer, non è tanto (e solo) la prima trasposizione per il mezzo televisivo del fumetto originale: ne è (anche, soprattutto) il sequel. Le aspettative sono altissime, e i primi sessanta minuti (ci) lasciano con tanti spunti interessanti ma, se possibile, ancora più timori. L’operazione è audace e i rischi molteplici, a partire da quello (che è quasi più una certezza) di alienarsi la comprensione (e l’interesse) degli spettatori che non abbiano letto (o non ricordino così bene) l’opera di partenza. Ma il rischio peggiore è quello di incartarsi nell’autocitazione, di relegarsi nella (sia pur raffinatissima) autoreferenzialità, con riferimenti e addirittura intere battute traslati dal prototipo, dando (ora, e nelle puntate successive) l’impressione che si voglia parlare più del fumetto che delle questioni di cui il fumetto trattava.
È il 15 dicembre 2019: si conclude la serie-sequel. Tutti i nodi rimasti (nella trama come nella riuscita del prodotto) vengono al pettine e, al netto di occasionali rallentamenti e passaggi intermedi meno incisivi, il verdetto è convinto: questo Watchmen ha vinto la sua scommessa. Ed è la vittoria della (buona) serialità come mezzo non solo per tradurre, ma per sviluppare i discorsi di un’altra arte (spesso) seriale, quella a fumetti. È la vittoria di un prodotto difficile, complesso, che come l’originale intreccia e sovrappone discorsi politici, filosofici, metalinguistici, rendendo quasi indistinguibile il confine fra intrattenimento e riflessione socio-culturale.
Se avessimo la percezione simultanea del tempo che caratterizza il Dr. Manhattan (deus ex machina– in tutti i sensi- di questo show) potremmo dire che lo sapevamo già. Che mentre leggevamo quell’intervista del 2003, o sfogliavamo il fumetto per la prima volta, o iniziavamo la visione della serie, eravamo coscienti (perché, in un certo senso, “ci trovavamo già lì”) che le cose sarebbero andate in questo modo. Così non è (stato), ovviamente. Eppure, meraviglioso paradosso della mente umana, ora tutti quei momenti, e altri ancora, coesistono nella nostra memoria, nella nostra consapevolezza. E quel fumetto, e quelle aspettative, e quei nove episodi che abbiamo fruito giorno per giorno, nel tempo lineare, ora sono impressi e disposti nella nostra mente in successione, ma simultanei: come le vignette di una singola tavola.
Moore sa(peva) che il linguaggio del fumetto ha una delle sue maggiori potenzialità espressive proprio nella capacità di mettere dialetticamente in relazione il tempo lineare e il tempo simultaneo. Come nella prima tavola del secondo capitolo di From Hell, dove diversi momenti chiave della vita di William Gull scorrono nella successione delle vignette e(ppure) coesistono nella medesima pagina. Come in Watchmen, che ha uno dei motivi (forse quello invecchiato meno, perché meno ab-usato da chi è arrivato dopo) della sua grandezza nella riflessione che svolge sui meccanismi e la percezione del tempo. E, non a caso, la dialettica linearità-simultaneità è la chiave per comprendere l’intelligenza dell’operazione di Lindelof & soci, il suo modo (forse senza precedenti) di relazionarsi a un (così impegnativo) prototipo.
Questo (sequel di) Watchmen, cioè, vive dall’inizio (?) alla fine (?) del confronto-contrasto tra quel fumetto (di cui recupera, nel mutato contesto, parole, immagini, personaggi, temi) e il suo altro, ciò che, tre decenni più tardi, scarta da esso (sviluppandolo, rileggendolo, persino riscrivendolo). Il prima della serie è contenuto nel dopo, che sottolinea ad ogni passaggio la propria determinazione genetica, il proprio debito filiale, fino al punto da suscitare inizialmente i dubbi di (eccessiva) autoreferenzialità di cui sopra. Ma la serie figlia finisce col rivendicare la propria autonomia, la propria alterità, fino a mettere in discussione più di una certezza dell’opera madre: o meglio, più di una certezza dei lettori (di ieri) e spettatori (di oggi).
I motivi e le soluzioni del fumetto sono tutti presenti nella serie HBO, ma ripensati e sviluppati per aggiornarli agli incubi del (nostro) presente. L’ucronia non riguarda più le tensioni fra i due blocchi della Guerra Fredda, bensì quelle interne a un’America divisa tra un regime solo retoricamente progressista (il presidente Redford colleziona più mandati di Nixon) e i rigurgiti ormai incontenibili di un profondo (da sempre) razzista ed eversivo. La demitizzazione del supereroe si spinge fino ad annullare ogni confine residuo tra vigilanti, (brutali) agenti di polizia mascherati e terroristi incappucciati, tutti figli (in lotta) della medesima patologia psicologica e sociale. Il rapporto dell’umanità col (vero) superuomo di(vin)o (e di quest’ultimo con se stesso) è approfondito per sentieri non battuti ma annunciati dal fumetto (la creazione della vita umana) o comunque ad esso perfettamente consequenziali, mostrandoci non più (tanto e solo) uomini che si relazionano col dio (imperfetto) ma uomini che vogliono diventare dei (e viceversa).
Sul piano stilistico, il corto circuito tra piani del discorso (parole da un lato, immagini dall’altro) e quello tra piani temporali che informa(va)no la forza poetica del fumetto è presente negli episodi più memorabili della serie (il terzo, il sesto, l’ottavo) ma opportunamente declinato nel linguaggio filmico (pensiamo ai long take di 1×06). La crudeltà spiazzante del fumetto è mantenuta ma superata (o, per meglio dire, rivisitata per gli standard odierni) attraverso un’ironia corrosiva che sfiora intenzionalmente la (auto)parodia: per esempio, nelle sequenze sulla prigionia di Ozymandias o in figure-trovate come quella dell’agente FBI nerd e toy-boy di Laurie (perfetta allegoria del rapporto, tra seduzione e sberleffo, che la serie intrattiene con i fan più feticisticamente devoti dell’originale).
Ancora, come il fumetto, la serie vive e procede a un ritmo discontinuo, dove talvolta il dipanarsi orizzontale del giallo fantapolitico si mette parzialmente in pausa per esplorare verticalmente il vissuto e il paesaggio psichico dei singoli protagonisti. Ma proprio nella gestione dei personaggi (quelli “storici” e quelli creati ex novo) si mostrano con maggiore evidenza i termini della dialettica costante tra il prima (il fumetto) e il dopo (la serie), tra la loro coesistenza (nel tempo simultaneo) e la loro distanza (nel tempo lineare).
La Laurie/Spettro di Seta di Jean Smart e l’Adrian/Ozymandias di Jeremy Irons si rivelano via via non solo sviluppi possibili dei personaggi di trent’anni prima, ma (in modo più sottile) reinterpretazioni di essi. È coerente con la Laurie del fumetto (da sempre in conflitto col proprio ruolo, più subito che assunto, di eroina mascherata) questa cacciatrice governativa di vigilanti, e al tempo stesso se ne distacca rinchiudendo e ribaltando la fragilità emotiva di ieri in una corazza di cinismo. È (sempre) geniale, machiavellico e pericolosamente attratto dalle (sue) utopie questo Adrian, eppure la (ri)scrittura di Lindelof (non meno dell’istrionismo di Irons) ne esaspera i tratti narcisistici ed esibizionisti, mostrandocene la sconfitta che l’ambiguità del fumetto ammetteva solo come ipotesi.
Analogamente, i personaggi inediti vivono e si svelano al crocevia tra rievocazione, sviluppo e tradimento del passato. L’esempio più emblematico è rappresentato da Wade/Specchio (Tim Blake Nelson): la serie gioca a mostrarcelo come fratello minore (visivo e tematico) del grande (inevitabile) assente di questo seguito, Rorschach (del quale i suprematisti bianchi con le loro maschere offrono solo l’esasperazione, quasi grottesca, di un singolo aspetto). Wade appare a prima vista un nuovo Rorschach in molti aspetti: dal ruolo di detective alla maschera integrale che ne rivela l’approccio (malato) alla realtà, dal trauma che ne determina (o accentua) il rapporto problematico col femminile, fino al contrasto etico con Adrian. Eppure, in maniera più sottile, Wade emerge (anche) come un anti-Rorschach: la sua paura istintiva delle donne non si risolve in odio moralistico ma in un continuo (per quanto accidentato) tentativo di (ri)costruire un rapporto con loro (come evidenzia il bell’episodio 1×05); la sua accettazione di un compromesso (il parziale e provvisorio tradimento dell’amica-collega Angela) gli permette di salvarsi giocando un ruolo positivo (e addirittura salvifico) nella svolta finale.
Siamo sospesi tra simultaneità e linearità, dunque: nella storia narrata come nel modo di narrarla. L’originale Watchmen non è solo alluso, citato, evocato: è presente nel suo dopo, nelle analogie e nelle differenze che attraggono e respingono (oggi) il fumetto di ieri e la serie di domani. E che dietro e dentro tale dialettica ci sia qualcosa di più di una brillante operazione postmoderna, lo dimostrano i due personaggi chiave della serie-stagione, quelli che più e meglio di ogni altro riassumono i termini di questo gioco irrisolvibile tra passaggio di tempo e coesistenza nel tempo stesso: Cal/Dr. Manhattan (Yayha Abdul-Mateen) e Will/Hooded Justice (Louis Gossett Jr.).
Il primo tematizza in sé il concetto di simultaneità. Il secondo rappresenta il peso dello scorrere lineare del tempo- e però porta passato e futuro a incontrarsi-scontrarsi, svelando quanto non sapevamo e smentendo quanto credevamo essere stato. Entrambi sono personaggi del fumetto e al tempo stesso nuovi personaggi (ri)creati dalla serie, anche nella fisionomia. Entrambi esprimono al massimo grado la straordinaria (e coraggiosa) libertà di un sequel (e di una serie) nel relazionarsi al suo prototipo, libertà che non pecca mai di superficialità perché si fonda sulla consapevolezza (anche, soprattutto, nella volontà di rimetterlo in discussione) del passato.
E adesso? La conclusione di questa stagione ci lascia con (più di) un punto interrogativo e la possibilità di ulteriori sviluppi. C’è chi sostiene (d’altronde) che il prodotto, con tutte le sue aperture e sospensioni finali, sia compiuto così, e avrebbe in parte ragione. Tuttavia, il vero limite (forse inevitabile) di questi ottimi nove episodi è non aver costruito un’ucronia del (e per il) 2019 che eguagli l’ampiezza, per quantità di dettagli e affluenti in cui immergersi, di quella del (e per il) 1985. Resta, infatti, la sensazione di un discorso i cui spunti avrebbero meritato (o meriterebbero) di essere esplorati ancora. Forse quanto detto è stato sufficiente, eppure tanto altro si potrebbe ancora dire. E, del resto, «Niente finisce, Adrian. Niente ha mai fine…».
Emanuele Bucci