The King – Tornare a Shakespeare Passando Da David Michod
Nell’immaginario collettivo, siamo abituati a pensare ad Enrico V come il grande re che unificò il regno d’Inghilterra e guidò il suo pugno di truppe contro l’esercito francese, sbaragliandolo nella gloriosa battaglia di Agincourt.
Questo perché quasi tutti, in maniera diretta o indiretta, sono entrati in contatto con l’opera che più di tutte ha contribuito alla mitizzazione di questo personaggio storico, l’omonimo dramma teatrale scritto da William Shakespeare.
Shakespeare, che ha fondato nei suoi drammi il personaggio moderno e contemporaneo, scrive un’opera caratterizzata da un protagonista solido, fermo nelle sue decisioni, guidato da un codice cavalleresco. O almeno questo è quello che vuole farci credere. Che si tratti di un’opera su commissione, e per questo poco incline a seguire l’arte contraddittoria dei personaggi shakespeariani, oppure perché, con la trilogia che termina con l’Enrico V, l’autore andava a trattare un pezzo di storia troppo cara agli inglesi (e proprio in quel periodo in fase di mitizzazione) per poter essere adattata in maniera prettamente shakespeariana, il drammaturgo elabora quella che sembra l’opera meno sua, almeno da un certo punto di vista.
Se, come detto, il re d’Inghilterra è sicuro nelle sue scelte, sebbene a volte discutibili o fondate su un’interpretazione malferma del diritto (l’eredità al trono di Francia ad esempio), Enrico sceglie la sua strada e, col carisma che gli è proprio, si fa seguire da nobili e sudditi. Allo stesso tempo, la struttura dell’opera sembra il vero terreno dove si svolge la battaglia interiore del grande drammaturgo.
Se il personaggio sembra andare dritto per la sua strada (eccezion fatta per i dubbi che lo portano ad andare nell’accampamento la notte prima della battaglia a parlare coi suoi soldati), la costruzione dell’opera è contraddittoria: i cori introduttivi sottolineano la veridicità degli eventi storici, esenti da rimaneggiamenti letterari, prendendo le distanze e limitandosi ai passaggi di scena, mentre gli atti affondano nella storia, facendo emergere, per chi sa dove guardare, luci e ombre di personaggi e situazioni che vorrebbero essere nel giusto, ma che si prestano ad interpretazioni diverse.
Questo processo di immissione nella storia e di avvicinamento dell’autore ai personaggi, arriva a compimento con il film “The King”, che già dai primi minuti ci mostra un atmosfera completamente diversa. La corte non è più splendente, ma ha un’aura oscura, cupa, corrotta, diffidente e piena di malcontento, dilaniata da lotte intestine. Una diffidenza che si incarna nella figura del re padre, individuo paranoico e pronto a tessere complotti con chiunque.
Proprio per allontanarsi da questo clima, il giovane Hal vive in una locanda dove dorme di giorno e festeggia di notte, uno stile di vita che inasprisce i suoi rapporti col padre, a tal punto da essere convocato in un’udienza formale per avere la comunicazione che non sarebbe succeduto sul trono. Un peso che il giovane Hal dichiara da subito di non volere e che continuerà a restare tale per tutta la narrazione, un peso non richiesto e che assume sulle sue fragili spalle per operare per un bene superiore.
Fin da subito il protagonista è disposto a mettere da parte le sue riserve e a scendere in campo per il bene degli altri, anche se potrebbe costargli la sua stessa vita. Per placare la faida creata con un nobile dai sospetti del padre, scende in campo personalmente contro di lui in duello per salvare la vita ad entrambi gli schieramenti.
Se Shakespeare aveva tracciato un personaggio portatore di luce e di speranza, ma guidato forse da motivazioni discutibili, in questo film si ribalta tutto. Questo nuovo personaggio sembra un buco nero che attrae tutto e tutti verso di sé, un buco nero di umanità e di dolore, dal quale però, man mano che si procede nella narrazione, viene fuori più luce di quanta non ci si aspetti. Una luce consapevole e forte, che rifiuta i pretesti dinastici che gli vengono forniti per dichiararsi erede al trono di Francia e le provocazioni della Francia (pensiamo al dono della palla da parte del Delfino).
Nonostante i consigli dei nobili vicini che vogliono questa guerra, Hal pensa ai suoi sudditi appena usciti dai recenti conflitti, e finché non gli vengono presentate prove concrete (o almeno che sembrino tali) di volontà di guerra da parte dei francesi, tramite un assassino e un complotto creato coi suoi stessi fidati, rifiuta la guerra finché può.
Nel regno dei personaggi amletici, forti dei loro drammi interiori, David Michod sembra portare a compimento quello che Shakespeare non aveva potuto fare: lavorare sulle ombre di una delle figure storiche e dei personaggi più amati del suo tempo e dei tempi a venire.
Se abbiamo visto l’Enrico V shakespeariano come un messaggero della volontà divina e per questo pronto a tutto per raggiungere il suo obiettivo, anche ad uccidere e dimenticare chi lo intralcia nella sua ascesa, qui vediamo un re diviso tra sé stesso e quello che crede giusto e quello che credono sia giusto quelli che lo circondano.
Esemplare il rapporto con Falstaff, compagno di baldorie giovanili, abbandonato al suo destino di morte e oblio nel copione, come simbolo della gioventù che muore per la nascita di qualcun altro, elevato a consigliere e stratega dietro la macchina da presa, sarà uno dei pochi a cui Hal chiederà consiglio nei momenti fondamentali della guerra. Con lui a seguire le sue indicazioni passa la famosa notte prima della battaglia di Agincourt, come simbolo del pensiero senza interferenze esterne, lucido e sincero, esattamene come accadeva nelle serate tra amici che hanno passato insieme.
Si sacrificherà anche lui per Hal, ma sul campo di battaglia, per la causa comune. La scoperta finale del tradimento dell’altro suo consigliere, sarà aggravato dalla morte dell’ultimo amico fidato che Enrico possedeva.
Un personaggio amletico quello portato sullo schermo da David Michod, diviso tra l’essere se stesso e l’essere quello che gli altri vorrebbero che fosse, quello che ritiene giusto e quello che il suo ruolo gli impone. Michod non ha gli stessi vincoli di commissione che aveva Shakespeare e può creare i personaggi che il grande drammaturgo ha lasciato in potenza: complessi, contraddittori, meschini a volte, ma allo stesso tempo reali. La scelta degli attori è giusta: questo Enrico è ben interpretato da Thimotée Chalamet, che con la sua fisicità e presenza scenica aggiunge un ulteriore contrasto al personaggio: gracile e snello, sembra spezzarsi da un momento all’altro, ma sorretto e guidato da una forza che lo rende carismatico e potente. Un film di contrasti questo, interni ai personaggi, nella scelta dell’illuminazione e nell’atmosfera, che ricorda vagamente le corti dell’Amleto e del Macbeth. È a tutti gli effetti un film shakespeariano nel suo veicolare il pensiero del grande drammaturgo inglese e quasi portandolo a compimento, nella libertà che la distanza temporale e il cinema del ventunesimo secolo concede.
Sabrina Podda