Romaeuropa 2019 – Don’t Fear The Light – Il Minimalismo, Il Dialogo Tra Le Arti, Il Calore Dell’Intimità
Quello che finisce per organizzarsi e per essere movimentato nel corso di Don’t Fear The Light, il concerto della Minimalist Dream House, collettivo formato dalle pianiste Katia e Marielle Labeque, dal chitarrista e compositore Bryce Dessner e dal sound designer David Chalmin che si è esibito il 10 Novembre nell’ambito del Festival Romaeuropa, è uno spazio sonoro a quattro voci che sceglie di non essere inerte, di presentarsi cioè allo sguardo e all’ascolto dello spettatore a sostegno di un puro evento performativo ma decide di prendere una posizione e di farsi vettore per un discorso che finisce per interrogare lo statuto stesso di quel minimalismo che ha finito per costituire le fondamenta della musica colta contemporanea.
Ha ancora senso, sostanzialmente, parlare di musica colta come entità separata dal continuum delle arti, impermeabile cioè a qualsiasi altra influenza esterna? Ha ancora senso parlare di tradizione, di canone? Ma soprattutto è ancora possibile affrontare la musica colta attraverso l’usuale paradigma performativo?
Don’t Fear The Light si propone l’ambizioso compito di affrontare ognuna di queste singole questioni metodologiche, tematiche e legate alla ricezione di un’opera d’arte nella sua densa ora e mezza di durata.
Di fronte allo spettatore si squaderna dunque un viaggio che è soprattutto un percorso di ricerca volto a problematizzare quelli che, secondo quello che è a tutti gli effetti un collettivo artistico militante riunito per una sera, sono i capisaldi della musica colta contemporanea.
Un po’ come se ci si trovasse in un luogo di sperimentazione in divenire, il gruppo organizza le sue argomentazioni con un atteggiamento quasi demistificatorio. Si parte, in sostanza, da ciò che l’ascoltatore già conosce, e lo si rilegge gradualmente lasciandolo reagire con lo zeitgeist.
Non sorprende dunque che le prime due proposte in scaletta siano Out Of Shape di Timo Andres e la suite in tre movimenti Electric Counterpoint di Steve Reich. Si parte da quel minimalismo che sembra essere centrale nell’arte contemporanea, un minimalismo che in questo caso si organizza attorno a due dei suoi più puri rappresentanti e tuttavia, a ben guardare, anche solo attraverso queste prime due esecuzioni proprio l’edificio, meglio ancora l’altare su cui da anni è assisa la musica contemporanea oltreché la concezione che di essa ha l’ascoltatore medio comincia a tremare.
Partire con un brano di Timo Andres è in effetti una dichiarazione particolarmente forte per il discorso che qui il gruppo intende organizzare.
Si rifiutano i vari Cage, Reily, LaMonte Young e gli altri padri del minimalismo e si sceglie, piuttosto, di partire con un ambizioso e poliedrico compositore americano che, solo negli ultimi tempi ha trovato il successo ma che, soprattutto, dichiara di avere tra le sue influenze gruppi sperimentali e squisitamente “post” (pop, rock, poi si vedrà) come i Sigur Ros o i Boards Of Canada. È, in fondo, il primo tentativo di creare una connessione, di riflettere attorno allo statuto della musica contemporanea, di dimostrare (più agli occhi di chi l’ascolta che di coloro che la fanno materialmente), che l’unico modo per far sì che essa possa continuare a prosperare è adattarsi e dialogare con l’esterno, assorbendo gli spunti e le influenze più svariate.
A ben guardare, tuttavia, anche la suite di Steve Reich porta con sé un certo quid di ambiguità nel momento in cui entra in contatto con lo spazio sonoro. La rigida struttura dell’Electric Counterpoint è in effetti rigida solo in apparenza e, nei suoi tre movimenti, la composizione di Steve Reich riesce a liberarsi dall’austerità che si potrebbe facilmente ricondurre al genere per accogliere un passo più specificatamente “narrativo”, arrivando fino a movimentare il suono in maniera espressiva, grazie anche all’uso oculato di delay e loop.
La stratificazione del suono è dunque lo strumento usato da Bryce Dessner per evocare scenari (pensiamo all’affresco simile ad un locus amoenus del secondo movimento) o momenti dinamici (lo scontro di spunti sonori del terzo movimento).
Di nuovo, si dimostra che il suono o si adatta o muore, stavolta utilizzando una composizione che finisce per dialogare con le prime sperimentazioni di musica elettronica e, soprattutto, con una chitarra che non ha paura di fare propria una diteggiatura, una scrittura, che avvicina ad un suono assimilabile alla chitarra jazz.
Forse lo spunto più forte in questo senso però ci viene offerto dal brano successivo in scaletta. Four Movements For Two Pianos ha in effetti tutto il sapore del momento programmatico in rapporto a tutto ciò che stiamo ascoltando. La suite di Philip Glass è in effetti un momento musicale liquido, dinamico, aperto alla contaminazione ma soprattutto completamente organizzato attorno a quel contrasto che è un po’ la chiave di volta di tutta la performance.
Un contrasto squisitamente sonoro, in cui all’irruenza, alla dinamicità, al passo forte dei movimenti dispari rispondono la quiete la distensione dei movimenti pari; un contrasto quasi tematico, che fa convivere il minimalismo duro e puro con spunti che non è difficile ricondurre alla musica da film e, in particolare allo stile di Danny Elfman (nel secondo movimento); soprattutto, tuttavia, quello organizzato dal contatto tra i Four Movements di Philip Glass e il duo delle sorelle Labeque è un contrasto puramente performativo.
Katia e Marielle Labeque, nel corso della loro performance, traducono l’irruenza di alcuni passaggi della suite nella violenza attraverso cui si rapportano ai loro strumenti: picchiano i tasti, si alzano in piedi, quasi si dimenano. Le due stanno fondamentalmente riscrivendo il paradigma del performativo della musica colta, incorporando in essa gli stilemi tipici di una qualsiasi performance tipicamente pop se non addirittura rock.
Il laboratorio di ricerca della Minimalist Dream House ha dunque portato allo scoperto la sua vera natura, ora non resta che capire fin dove ci si può spingere.
Al di sopra della sua impalcatura minimalista, El Chan, la suite in sette movimenti per pianoforte (qui proposta espansa e rivista attraverso l’uso dell’elettronica, una scelta che di fatto è essa stessa una dichiarazione di intenti in materia di dialogo tra arti) composta da Bryce Dessner si presenta come un nuovo modo di intendere la musica a programma. El Chan è in effetti un crogiuolo sonoro di linguaggi differenti in continuo dialogo. La composizione di Dessner nasce dopo aver concluso i lavori sulla colonna sonora di Revenant di Alejandro Gonzales Inarritu e a ben guardare è profondamente influenzata dal cinema del maestro messicano. All’interno della griglia minimalista si nota la volontà di creare uno storytelling per immagini, stimolato, forse, dai titoli delle singole parti del brano (Four Winds, Coyote) ma amplificati dal passo nervoso, dinamico, proteiforme delle due sequenze, che sembrano portare in nuce il germe del cinema di Inarritu e, soprattutto, del suo modo peculiare di concepire la natura come luogo inospitale e aggressivo.
Addirittura più interessante in questo senso è l’esecuzione di Don’t Fear The Light, prima incursione nella musica colta a firma di Thom Yorke. Si tratta di una composizione in cui Yorke pare voglia approfondire la lezione iniziata con il lavoro sulla drammaturgia del suono del Suspiria di Guadagnino in termini di storytelling.
Don’t Fear The Light riparte dalle atmosfere inquiete evocate dai paesaggi sonori di Suspiria lasciando lo spettatore a confrontarsi con un brano nervoso e atmosferico, sostenuto da un bordone quasi continuo (altro lascito del lavoro con Guadagnino, tra l’altro) ed in cui l’esperienza d’ascolto finisce per essere costantemente perturbata dal moltiplicarsi delle sorgenti di suono. È, tuttavia, di nuovo, una parentesi momentanea, esattamente come accadeva con Suspiria, le sequenze caotiche lasciano costantemente e immancabilmente il posto a momenti più quieti che, tuttavia, non potevano non essere “marchiati” dall’entropia che ha occupato lo spazio sonoro fino ad un momento prima. La seconda parte è dunque più distesa ma continua ad essere puntellata da accenti inquietanti, che lasceranno spazio, nella terza sezione, ad un puro momento di esercizi di serializzazione.
Il laboratorio della Minimalist Dream House procede spedito nella sua interrogazione delle chiavi di lettura culturali del nostro tempo attraverso il suono, arriva addirittura a scomodare l’Hauntology di Mark Fisher scegliendo di inserire in scaletta Particules 5 di David Chalmin, con il suo passo dilatato, il bordone e gli improvvisi spunti pizzicati ma appare chiaro che la chiave di volta attraverso cui le sorelle Labeque indagano lo stato di salute della musica colta e le sue interrelazioni con le altre arti è proprio il cinema, meglio ancora, la pura pulsione dello sguardo.
Particules 6, prima e unica incursione cantata della performance, è un brano struggente, essenziale, ma soprattutto caratterizzato da una forte carica visiva, una composizione che potrebbe sottolineare la sequenza centrale di un film sentimentale o i suoi titoli di coda. Ancora, in Distant Places, si continua a lavorare sullo sguardo spettatoriale spostandosi sul versante performativo e cercando una nuova interferenza tra l’orizzonte colto e quello più prettamente popolare, attraverso il setup, la formazione dei componenti sul palco e, soprattutto, la presenza scenica di Bryce Dessner che, da solo, in primo piano rispetto alla platea, incarna l’archetipo della rockstar impegnata in un solo quasi eterno.
Lo sguardo, insieme, forse, al dialogo (tra artisti, tra campi performativi, tra arti), è così centrale nel progetto delle Labeque che è proprio attorno a questi due elementi che si organizza l’esecuzione dell’ultimo brano in scaletta. Haven di Bryce Dessner è forse il momento più intimo e alto del concerto. Al di sopra di un classico pezzo minimalista si organizza una complessa griglia performativa sviluppata dai musicisti sul palco e completata dallo sguardo degli spettatori in platea fatta di complicità, sicurezza nell’esecuzione, calore, sinergia e solidarietà.
Una comunione di intenti, una genuinità di fini che sembra essere il punto di arrivo maggiore del progetto delle sorelle Labeque.
Don’t Fear The Light è null’altro che questo, una performance di altissimo valore più per gli spunti sottesi, per gli intenti che (soltanto) per lo sviluppo del suo tessuto musicale.
Le sorelle Labeque, Bryce Dessner e David Chalmin hanno creato un originale e a tratti imprevisto dialogo tra arti che sembra organizzarsi, prima che sul proficuo scambio di spunti, su un genuino ritorno a sensazioni e istinti primordiali legati alla pura performance: la pulsione dello sguardo, l’intimità e il puro affetto che si sviluppano dalla comunione di esecutori ed ascoltatori.
Alessio Baronci