Roma FF14 – The Irishman – La Morte Di Hoffa, La Morte Del Gangster Movie
Dentro The Irishman c’è la forza che solo i progetti a loro modo finali hanno. The Irishman non è, sia chiaro, l’ultimo progetto di Scorsese al cinema (il quale, piuttosto, a giudicare dalla freschezza del suo approccio alla macchina e all’originalità di certe soluzioni visive continua a dire la sua e a pensare la scena come un trentenne), né costituisce l’ultimo confronto con la macchina da presa di Joe Pesci, Robert De Niro o Al Pacino, eppure, appare chiaro che a sostanziare l’essenza del film, sia una vera e propria pulsione all’epilogo, il tentativo, in buona sostanza, di chiudere un discorso, particolarmente personale e, soprattutto, vecchio di anni.
Man mano che ci si addentra in profondità in quest’opera attesa per almeno vent’anni, i confini, le coordinate che definiscono la natura profonda di questo epilogo diventano sempre più evidenti.
Basta poco, in effetti, per notare quanto The Irishman si muova su un passo imprevisto anche per lo stesso Scorsese. Di fronte a noi, e servono soltanto i primi quarantacinque minuti di questo affresco mastodontico per capirlo, si presenta il frutto di un vero e proprio dilemma morale di Scorsese, una diatriba ideologica feroce ma che, a ben guardare, non giunge certo imprevista al regista che, anzi, col proseguire della narrazione sembra volerne fare il centro tematico della sua narrazione.
In The Irishman, forse mai come in The Irishman, si assiste alla resa dei conti tra le due anime creative di Scorsese, quella terrena, cruda, concreta, legata al gangster movie, alla violenza, all’oscurità del male, al rock and roll, e quella metafisica, legata ad un’idea di religiosità popolare, costantemente alla ricerca di redenzione, un’anima austera, quasi gesuita. E allora, letto da questa particolare prospettiva, il film appare fin nelle sue componenti formali (e non solo in quelle, si vedrà poi), come una fuga a perdifiato del lato terreno di Scorsese dalla sua controparte, una fuga, che si rivelerà, tuttavia, inutile e destinata a fallire.
The Irishman parte come un gangster movie di Scorsese potenziato ed in effetti di esso ha tutte le componenti essenziali, dalla narrazione in voice over all’uso ironico ed esplicativo del montaggio, passando per il trattamento della violenza e la drammaturgia sonora ben piantata nella tradizione rock and roll americana.
Dopotutto non potrebbe esistere sintassi più corretta per raccontare uno dei più grandi misteri americani, l’omicidio di quel Jimmy Hoffa che in vita seppe intrecciare rapporti con il lato chiaro ed il lato oscuro della società americana, influenzando, di fatto, almeno trent’anni della sua storia politica, sociale e criminale, un omicidio che è anche, almeno seguendo la teoria più accreditata, il culmine di una tragedia dal sapore Shakesperiano in cui due amici fraterni giungono a soluzioni estreme pur di mantenere inalterato uno status quo conveniente, pur di non contraddire la loro, personale, ragion di stato. O forse no?
Il punto è che, dopo poco, il meccanismo narrativo, tutto organizzato attorno a dinamiche solidali con le aspettative del pubblico, partito praticamente al massimo del potenziale fin dalla prima inquadratura e apparentemente così disinvolto da prelevare in relativa agilità sequenze intere dalla filmografia del regista per riproporle in questo nuovo flusso (penso a Casinò o a Godfellas), pur non cedendo mai completamente inizia, lentamente, ad annebbiarsi e subito dopo a sfaldarsi.
È l’anima gesuita che sta prendendo il sopravvento sulla carne, sulla violenza, sul sangue, ponendo fine allo scontro con l’identità artistica più nota e dirompente di Scorsese. Precisiamo, tuttavia, che più che modificare gli intenti ed il focus di tutto il progetto, quest’approccio più precisamente metafisico non fa altro che svelarsi e chiarire quelli che sono stati i temi e le tensioni progettuali che hanno caratterizzato il film fin dalla sua prima inquadratura.
The Irishman, nel profondo, non è un film sulla mafia, né un film su un omicidio insoluto, né una pellicola che si propone di riassumere in tre ore e mezza praticamente la storia degli Stati Uniti D’America dal secondo dopoguerra ad oggi, The Irishman è un film sul tempo che passa, sulla ricerca di redenzione, sulla vecchiaia intesa come disfacimento dell’essere e della propria identità, The Irishman è, letteralmente (almeno nella lettura di Scorsese), la morte in azione a ventiquattro fotogrammi al secondo.
Persistente, al di sopra, dell’odore delle case suburbane, dei luoghi del potere, dei ristoranti o dei locali dove Frank Sheenan si incontra con boss e affiliati c’è, immancabile, l’odore della morte, che immerge tutta la narrazione in un’atmosfera a metà tra la paura millenaristica e la consapevolezza apocalittica.
Una morte muta, moralmente neutrale, più vicina ad uno spirito del tempo inesorabile che all’oscura signora, né malvagia né benevola, che tuttavia non abbandona mai le parti in gioco ma, anzi, non perde occasione per farsi evidente, presente concreta. Pensiamo alle carrellate mute (la prima delle quali, programmaticamente, apre il film), che rimandano ad un’entità silenziosa che osserva la scena con lo stesso distacco di noi spettatori, pensiamo ai dettagli sulla dipartita (data e cause) di molti dei personaggi secondari che la diegesi ci elenca mentre noi spettatori facciamo la loro conoscenza per la prima volta; pensiamo, infine, all’ironia caustica, amara, ai limiti del politicamente corretto che esplode a tratti per contrapporsi ai momenti più violenti del film, in fondo non dissimile a quella ricerca del piacere, del riso, della vita, nel tentativo inutile di opporsi alla propria rovina che caratterizzava, a detta di Boccaccio, il comportamento dei Fiorentini allo scoppio della peste come ci viene raccontata nel prologo del Decamerone.
Non ci si oppone alla morte, non ci si oppone al decadimento, alla consunzione, all’invecchiamento, alla perdita di tutto ciò che ci è caro, di fronte a noi sti staglia un’entità talmente potente (che sia la morte o il tempo poco cambia in realtà) che finisce per intaccare anche lo stesso tessuto filmico.
Nel processo di graduale svelamento della vera natura di The Irishman diventa chiaro, per prima cosa, il minimalismo e l’austerità della costruzione del suo intreccio: il grande affresco di mafia è tutto giocato sulle interazioni tra tre, quattro personaggi in totale piuttosto che sui rapporti tra decine di boss ed affiliati, l’epopea controstorica degli Stati Uniti d’America, viene volutamente ridotta a cinque o sei landmarks essenziali, ognuno raccontato (meglio, riassunto), quasi per metonimia, attraverso l’evocazione di un dettaglio essenziale o di una personalità politica legati alla vicenda.
È proprio questa costruzione razionalista che il procedere della narrazione intaccherà inesorabilmente come un fiume carsico: il ritmo si dilata, rallenta, la violenza viene sostituita da dialoghi apparentemente infiniti, le sparatorie dai lunghi silenzi, gli omicidi, sempre più rari, si svolgono quasi fuori scena.
Addirittura il puro formato dello storytelling subisce una profonda asciugatura e dalla sintassi veloce, che rimanda quasi ai tempi televisivi, della prima parte, si passa ad un approccio maggiormente contemplativo, da cinema d’art house, che ha il suo apice nella lunghissima sequenza dell’omicidio di Hoffa, la cui prima parte è giocata tutta sulle lunghe panoramiche, sui tempi morti, sulla mancanza di battute, sulla morte che coglie in apocope, improvvisa, il sindacalista.
The Irishman è un fiammifero che brucia, un oggetto artistico su cui agisce un’entità impietosa non solo nei confronti dei suoi protagonisti ma anche dello spettatore, un essere capace di non fermarsi nella sua attività di consunzione neanche nel momento in cui è chiaro che un’azione, forte, di opposizione ad essa c’è stata.
Nell’ultima scena Frank sembra rendersi conto improvvisamente non solo dei suoi crimini ma, anche e soprattutto, della sua solitudine, della morte che incombe su di lui; non basta, tuttavia, questo momento di consapevolezza a salvarlo, la morte, il tempo, non si fermano e il racconto si chiude improvvisamente, immergendo tutta la narrazione, nel nulla, nel nero dei titoli di coda.
Attraverso quello che è uno dei suoi progetti tecnicamente più ambiziosi, Scorsese compie un percorso imprevisto e sceglie di mettere la potenza della tecnologia al servizio di una profondissima riflessione sul senso del tempo e della mortalità. Non sono solo i suoi tre personaggi a cadere impotenti di fronte al disfacimento è Scorsese stesso che, artisticamente nudo, lascia che il suo stesso cinema, meglio ancora, quel genere che egli contribuì a riformare, il gangster movie, invecchi, muoia e marcisca sotto il peso del tempo.
Alessio Baronci