Roma FF14 – Honey Boy: l’auto-narrazione e la luce del dubbio
«Non riesco a capire chi cazzo sei, attore»: eccolo, per bocca del padre (e di se stesso) il dilemma del protagonista (e dell’autore) di Honey Boy, diretto da Alma Har’el e scritto (oltre che interpretato) da Shia LaBeouf, primo artefice dell’operazione che (ri)elabora la propria infanzia travagliata. Lo potremmo definire, insomma, un auto-biopic, ma sarebbe troppo semplice, e non solo perché i personaggi del film (dichiarati fittizi dai titoli di coda) hanno nomi diversi rispetto alle figure cui sono ispirati. Il punto focale di Honey Boy, infatti,è interrogativo: dove finisce la realtà e dove comincia la finzione? Quanto c’è di attendibile, nelle (auto)narrazioni di cui è fatta la (auto)narrazione del film? E non è forse nella presunta (in)attendibilità del racconto (di racconti) che sta la riflessione più densa, la verità più intensa di questo gioco privato e pubblico di specchi?
Le domande (nella domanda) scorrono per un’ora e mezza, gettate nel fiume di un montaggio che alterna fluidamente scene di vita adulta bloccata all’infanzia e di infanzia negata dietro-dentro le ferite dell’adulto. È la vicenda, duplice e molteplice, del giovane attore e già (suo malgrado) enfant prodige Otis: oggi ospite coatto di una comunità di recupero dopo l’ennesimo arresto da abuso di alcol, ieri (nel 1995) star dodicenne che mantiene il padre frustrato e (anch’egli) alcolista James. Ma è proprio la figura paterna il fondamentale, ingombrante specchio per Otis/LaBeouf. Il padre oppressivo ma assente, clown fallito incapace di tenere la mano al figlio perché non vuole che la gente lo creda «un pervertito», ha il volto e il corpo dello stesso LaBeouf: è lui a interpretarne il ruolo nella finzione, oltre che a fronteggiarne il riflesso dentro e fuori di sé, dentro e fuori il film (non solo) su di sé.
Honey Boy, dunque, oltre a scomporre l’alter ego del suo autore-attore in un io bambino (Noah Jupe) e un io adulto (Lucas Hedges), li/si frammenta ulteriormente nella tensione-condanna di padre e figlio a (ri)conoscersi e a (ri)tornare costantemente l’uno all’altro. E, non casualmente, il principale trait d’union che mantiene protagonista e genitore interdipendenti nel tempo è l’uso-abuso di finzioni, di auto-rappresentazioni perennemente sul filo della mistificazione. James/LaBeouf e Otis/LaBeouf sono mostrati come due attori (o due clown) anche e soprattutto nella vita, che davanti alle tribolazioni decisive del reale reagiscono prima di tutto chiudendosi nel proprio guscio di bugie recitate come verità. «Stai recitando», insiste con Otis adulto lo sponsor del percorso terapeutico. «Lo facciamo tutti», risponde il diretto interessato, svelando(ci) come anche i racconti del padre agli alcolisti anonimi, l’esposizione sofferta dei trascorsi da reduce di guerra e cocainomane, siano (forse) una collezione-interpretazione di storie prese da altri. Il dubbio sul sé (passato, presente e futuro) al centro del film si intreccia quindi inesorabilmente col dubbio sul raccontare sé, nell’impossibile (?) distinzione tra realtà e rappresentazione, tra persona e personaggio, tra personaggi che si rimandano, contaminano, sporcano costantemente a vicenda.
È dunque questa (onni)presenza del dubbio nelle pieghe (e premesse) della vicenda a rendere il film di/su Labeouf qualcosa di più e di meglio dell’ennesima operazione (auto)biografica, a non farla sprofondare nell’esibizione narcisistica e autoreferenziale di un ego (sia pur) in crisi. Ma non meno rilevante, in questa strategia, risulta l’apporto della regista: è con (e grazie) ad Alma Har’el che il gioco (meta)diegetico tra realtà finzione si fa compiutamente gioco (meta)audiovisivo. In questo senso il potenziale del film deflagra (letteralmente) nelle due inquadrature fisse, speculari e rivelative, che incorniciano l’incipit: due ciak da altrettanti set della vita di Otis, ora (oggi) un’esplosione ora (ieri) una torta in faccia, rappresentazioni dentro la rappresentazione che scagliano indietro rispettivamente l’adulto e il bambino, riportati in primo piano dai cavi di scena cui sono (da sempre, per sempre) appesi.
Da qui in poi, sceneggiatore e regista mettono in secondo piano l’aspetto esplicitamente metacinematografico del discorso in favore di quello intim(istic)amente metanarrativo. Har’el modella e (ri)compone l’autoanalisi filmica di LaBeouf con una lucidità e sensibilità che si riflettono nelle due presenze femminili più significative della storia, la psicologa di Otis adulto e (ancora di più) la giovane vicina di casa, primo (non convenzionale) amore di Otis bambino. L’una, da un lato, riporta Otis nel presente con la tecnica dei quattro oggetti e dell’elastico, perfetta metafora (anche) del montaggio come fondamentale soluzione del film, nella sua doppia valenza di scomposizione del vissuto/rappresentato e messa in relazione dei frammenti. Dall’altro lato, la ragazza interpretata da FKA twigs (attuale compagna- nell’ennesimo riverbero metatestuale- di LaBeouf) incarna il volto protettivo e rassicurante della dialettica realtà-finzione al centro del film: è lei il contraltare positivo (nel medesimo regime della vita come performance dai ruoli con-fusi) delle rappresentazioni (auto)distruttive di James, come dimostra la sequenza (di precaria, angosciante dolcezza) della partita di baseball immaginaria.
Ed è una partita di continui, delicati lanci e battute tra narrazione e sua messa in dubbio quella giocata tra la scrittura di LaBeouf e l’ordito registico di Har’el: l’uno e l’altra combinano gli artifici delle rispettive tecniche per suggerire e poi smentire (im)possibili verità e risoluzioni, come nel discorso del piccolo Otis al padre stravaccato a letto, confessione-riavvicinamento che si infrange in un «I love you» del genitore che è il gracchio metallico e irreale di un apparecchio televisivo. La partita del film, allora, è vinta, malgrado alcuni simboli un po’ ridondanti (la gallina ammaestrata) e i temi di per sé non nuovi. Perché nelle sequenze più riuscite del film il dubbio tra realtà e rappresentazione si fa veicolo non retorico dell’unica verità certa nel concerto ambiguo di riflessi: la verità del dolore di (più d’)una coscienza frantumata. Non per nulla, confessa Otis, è il «dolore» l’unico indubitabile lascito paterno, l’unico a mantenere un valore oltre le menzogne, le manipolazioni e le barzellette ciniche.
Nel farsi uno e molteplici (e contraddittori) lamenti-gridi di dolore, la non-realtà della (auto)rappresentazione di Honey Boy si professa vera e viva oltre ogni (presunzione di) oggettività. Una verità nella finzione che, inevitabilmente, si rapprende nei (e propaga dai) corpi e volti degli attori, tra cui risalta l’intensa coppia formata da Labeouf e dal giovanissimo Jupe: nel primo piano di quest’ultimo che si volta indietro, investito dai riflessi di una luce i(pe)rreale, sta l’immagine di un intero film, cui l’arte del (mettersi in) dubbio consente, dolorosamente, di sbocciare.
Emanuele Bucci