Roma FF14 – Motherless Brooklyn – Come Ripensare Il Noir Giocando Sul Sicuro
Motherless Brooklyn scritto, diretto, prodotto e interpretato dall’attore americano Edward Norton è il film che ha ufficialmente aperto la quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, ma è anche e soprattutto un progetto inseguito da tutta una vita, portato a termine a vent’anni di distanza da Tentazioni D’Amore, titolo che segnò il suo esordio dietro la macchina da presa proprio alla soglia del 2000, anno in cui scoprì il romanzo di Jonathan Lethem (che ha anche collaborato alla sceneggiatura) e che decise di prendervi parte in un futuro adattamento per il grande schermo.
Provando a guardare alle diverse potenzialità insite nel soggetto, tra cui la possibilità di assistere ad un film a cui Norton teneva molto e che, come ha più volte dichiaro, è riuscito a portare a termine armato di una sana caparbietà e della necessaria determinazione nell’inseguire una via del tutto personale sul progetto, era più che lecito affrontare la visione con un misto di curiosità e discreto interesse.
Allora tutto si riduce alla necessità di interrogarsi sul tipo di processo stabilito e messo in atto dal nostro uomo nei confronti della materia con cui ha deciso di confrontarsi. Non solo in termini di adattamento, su cui non voglio dilungarmi più di tanto, ma in particolare nei confronti di un genere assai codificato nella cultura statunitense, più volte recuperato da registi quali Hawks o Huston (pensiamo a Il Mistero del Falco) e poi decostruito e rifondato da esponenti quali Welles, Scorsese, Polanski e persino Goddard (se ripensiamo a Bed Times At The El Royale, anch’esso passato nel medesimo contesto festivaliero), autori che hanno tentato di rileggere i meccanismi e i codici del genere attraverso le rispettive istanze artistiche o (come nel caso di Goddard) di ripensarlo sin dalle fondamenta e metterlo allo specchio dei suoi limiti e delle sue problematiche interne rispetto alla contemporaneità.
C’è da dire che Norton sembra avere le idee molto chiare su quale scelta attuare sia in sede di regia che di adattamento per la sceneggiatura, ovvero far ripartire e strutturare le varie componenti estetiche e formali a partire dalla condizione del tutto particolare del detective protagonista, vero e proprio vettore di un intreccio che prende le mosse dalla tipica indagine ad alto rischio e che prosegue con una serie di situazioni in cui l’eroe, oltre a decifrare via via gli indizi raccolti, si dovrà scontrare con muri di omertà, corruzione, violenza e degrado urbano, spostando l’ambientazione ai polverosi e cupi anni ’50 rispetto al romanzo di Lethem.
Lionel Essrog, detto Brooklyn (Edward Norton), è quello che si potrebbe definire un detective sui generis. Possiede una memoria eidetica infallibile, ha un’incredibile capacità di ricordare dettagli, numeri e immagini anche se visti o ascoltati una volta sola, e di assemblarli e associarli come mosso da una costante spinta di decifrare la realtà che lo circonda, come fosse un puzzle a cui dedicarsi ossessivamente fino a trovare la giusta quadratura. La sua deformazione professionale deriva in realtà da un singolare disturbo mentale che si manifesta senza alcun controllo (soprattutto in momenti di particolare stress emotivo) attraverso suoni, frasi sconnesse, sproloqui senza motivo, tic e azioni compulsive, che sin da piccolo lo hanno reso un freak agli occhi degli altri. Una caratteristica che ci viene descritta da Lionel stesso, come avere “un anarchico dentro la testa che vuole paradossalmente avere tutto in ordine”. L’unico ad aver sempre creduto in lui è Frank Minna (Bruce Willis), l’uomo che lo ha salvato dall’orfanotrofio, il mentore che lo ha preso sotto la sua ala protettiva e che gli ha insegnato un mestiere in cui far valere il suo talento, il padre che non ha mai avuto. Ma quando Frank rimane ucciso in missione, a Lionel non resta altro che scoprire il colpevole e risolvere l’enigma celato nelle sue ultime parole.
Se dovessimo concentrare la nostra analisi sulle singole componenti alla base del lavoro messo in piedi da Norton, ci sarebbe poco da ridire.
Motherless Brooklyn infatti propone un racconto solido, che scorre chiaro e sostenuto dall’inizio alla fine, in grado di rispolverare con lodevole attenzione tutti i motivi più caratteristici dell’hard boiled tradizionale attualizzando il contesto attraverso un serie di riferimenti alla realtà sociale e politica degli Stati Uniti di oggi. Ad esempio richiamando a più riprese la figura di Donald Trump nella caratterizzazione di Moses Randolph, (interpretato da Alec Baldwin) con i suoi progetti espansionistici, il senso di megalomania e il ruolo di potere ricoperto all’interno della sede governativa di New York. Anche la regia di Norton si mostra efficace, equilibrata ed estremamente elegante, capace di ripartire e sfruttare diverse soluzioni visive che ben rappresentano il (dis)ordine associativo e mentale nella mente del protagonista, attraverso opportuni cambi di ripresa, diverse soggettive, montaggio sincopato e una serie di momenti onirici adeguatamente inseriti (sottolineati dalla fotografia sporca e sabbiosa di Dick Pope). Se a tutto questo aggiungiamo che la qualità registica trova un perfetto corrispettivo nella performance altrettanto misurata e priva di sbavature del Norton “attore”, alle prese con l’ennesimo personaggio disturbato della sua carriera, il più sembrerebbe essere fatto.
Il film è inoltre un compendio ben amalgamato di situazioni che accennano a più di un debito verso la tradizione cinematografica del noir, visti gli evidenti prelievi a capostipiti del genere quali Chinatown di Roman Polanski (da cui riprende in parte la struttura di base); Il Terzo Uomo di Carol Reed (in un momento in cui Lionel nell’inseguire Laura, si nasconde dietro l’ombra di un muro); Il Lungo Addio di Robert Altman (nella scena finale) e persino Citizen Kane di Orson Welles (entrambi i film, in fondo, sono due racconti di indagine a partire da un enigmatico indizio dichiarato in punto di morte). In tal modo, si ha quasi l’impressione che Motherless Brooklyn potrebbe davvero diventare il recupero postmoderno di un intero immaginario (anche letterario se consideriamo l’enorme influenza di autori quali Chandler e Ellroy) con le sue regole e i suoi modelli, ancora una volta aggiornati attraverso la sensibilità e la determinazione di Norton.
Eppure, analizzando attentamente il contesto diegetico e tutti gli elementi messi a disposizione dall’opera di Norton, qualcosa non torna.
Dopo un inizio promettente, in cui la regia padroneggia la materia filmica con discreta e ammirevole scioltezza, Motherless Brooklyn sembra come afflosciarsi, procede dietro una gestione narrativa pedante, fin troppo pigra nel recuperare tutti quei crismi e gli archetipi tipici del noir (la voce over come elemento di raccordo della storia, l’ambientazione anni ’50, la teatralità insistita delle scene, la definizione in chiaroscuro dei caratteri) senza spostare di una virgola rispetto a quanto fatto in passato. L’impressione che ne deriva è che il risultato si limiti principalmente a ricalcare in modo pedissequo la tradizione e i canoni di riferimento senza voler rischiare o aggiungere nulla né in termini di scrittura, né di estetica, né quantomeno per porre una riflessione inerente al genere e come rapportarlo all’oggi.
L’approccio di Norton appare in questo senso fin troppo didascalico nei confronti dello spettatore tanto vengono resi espliciti e riconoscibili i diversi elementi messi sul piatto, limitati nel loro incedere prevedibile da perdere di consistenza col passare del minutaggio. Mi riferisco all’evoluzione dei personaggi, alla storyline investigativa, persino il protagonista con la sua condizione “particolare” viene sfruttato poco. Ciò è evidente nelle modalità in cui Lionel tenta di relazionarsi e di aprirsi al mondo (grazie all’amore di Laura), o nel suo confrontarsi con le diverse anime di New York: quella sotterranea dei jazz club, quella più fragile e abbandonata a sé stessa delle minoranze etniche, quella ipocrita e dispotica di Moses Randolph o quella più progressista di chi si oppone al marcio e alla corruzione ma è incapace di proporre risposte e soluzioni efficaci per un auspicabile cambiamento (incarnato nel personaggio interpretato dal Willem Dafoe). Tutti elementi che finiscono per risultare tanto funzionali quanto vuoti.
Cosa ancor più incomprensibile, viste le premesse e la totale libertà di azione di Norton, è come mai non abbia deciso di sfruttare fino in fondo la componente ossessivo-compulsiva.
Pensateci. Solo a quaranta minuti dalla fine, vediamo Lionel sfruttare il suo talento/malattia nella ricostruzione degli indizi. Solo in un paio di scene vediamo concretamente la capacità di Lionel di percepire in modo distorto il mondo circostante, di ragionare per immagini sconnesse, di smontare e riconnettere gli indizi per ricostruire un’ordine nella sua mente. Perché allora non imperniare tutto il discorso filmico partendo da lì, dal suo protagonista, dalla centralità del suo talento/limite? Perché limitarsi ad una ricostruzione anni ’50 tirata a lucido senza provare a costruire un discorso autoriflessivo sul mezzo cinema e sul genere stesso attraverso un personaggio così atipico? Perché non approfondire quella dimensione irrisolta tra caos e ordine, tra ricerca di stabilità e solitudine? Perché non sporcarsi le mani e dare il necessario respiro ai personaggi, dimostrarsi davvero interessato ad ampliare tutte le questioni sollevate (temi evidentemente legati alle rivendicazioni sociali delle classi meno abbienti, al razzismo, alla corruzione interna degli organi governativi, allo strapotere edilizio) invece di limitarsi alla semplice riproposizione di stilemi che, mai come in questo caso, appaiono vuoti, datati e stantii?
Dunque, nonostante la professionalità e il buon affiatamento degli interpreti, la raffinatezza della fotografia, l’azzeccato utilizzo della colonna sonora e una cura ammirevole nella messa in scena, il film di Norton paga la scelta di non aver voluto osare con il potenziale offerto dal materiale di partenza. Preferisce mantenere il proprio approccio su uno stile insensatamente edulcorato (non vediamo mai le vere ripercussioni sulla città rispetto all’agire di Randolph), troppo distante nel ricercare la cupezza delle atmosfere (limitate da un senso di già visto che sfocia nella citazione un po’ fine a sé stessa), troppo lineare rispetto a quelle zone grigie che hanno da sempre caratterizzato il noir o alle riletture critiche sul genere all’epoca della New Hollywood.
Motherless Brooklyn resta indubbiamente un buon film vecchio stile, d’intrattenimento, veloce nel ritmo e sostenuto da un cast di primissimo ordine. Potrebbe perfino ottenere qualche consenso di critica in vista della stagione dei premi tanta è la cura e il professionismo dispiegati nella realizzazione, ma difficilmente riuscirà a imprimersi nella memoria del grande pubblico e nel solco dell’immaginario hard boiled.
Forse manca ancora un po’ di maturità al Norton regista/produttore, forse non c’è ancora quell’effettiva urgenza espressiva che apparentemente sembrava possedere (cosa più che comprensibile), o magari ci troviamo di fronte ad un progetto in cui il regista non ha compreso l’enorme potenziale che aveva per le mani accontentandosi di un buon risultato senza voler rischiare più di tanto.
Laura Sciarretta