Once Upon A Time…In Hollywood – Per Un Atlante Sentimentale Della Cinefilia
Once Upon A Time… In Hollywood potrebbe essere considerato, senza temere di incorrere in un qualche errore concettuale, un film Apocalittico. Non certo per il suo genere di riferimento, quanto, piuttosto, per la consapevolezza intrinseca che lo innerva nel profondo. Malgrado l’affresco della Hollywood del 1969 che regala allo spettatore, Once Upon A Time…In Hollywood è un prodotto profondamente contemporaneo proprio perché strettamente contemporanei sono le fondamenta da cui si dipartono i molteplici discorsi che sottendono l’ultimo film di Quentin Tarantino.
Arrivato alla soglia dei sessant’anni e (forse soprattutto) vicinissimo al limite autoimposto dopo il quale, dice, si chiuderà la sua carriera registica, Tarantino sembra sentirsi quasi obbligato a prendere posizione o quantomeno a confrontarsi con quella (vera o presunta) Morte Del Cinema che è al centro del dibattito teorico contemporaneo. La questione, tuttavia, è, se possibile, ancora più profonda di quanto possa apparire ad una prima occhiata.
Perché le opinioni di Tarantino in merito alle tendenze del cinema contemporaneo sono ben note: strenuo difensore della pellicola, della distribuzione del film nelle sale (egli stesso possiede un piccolo cinema a Los Angeles che programma continuamente vecchi classici e b-movies poco conosciuti), insomma, di un’esperienza filmica tradizionale e lontana dalla fruizione legata allo streaming o alla visione casalinga, ogni singolo ragionamento teorico di Tarantino ruota attorno al tentativo di preservare la genuina, pura emozione che, a suo dire, solo la fruizione di un film in sala può dare.
In questo senso, allora, Once Upon A Time…In Hollywood è una pellicola apocalittica non solo perché parte dal riconoscimento di un’evidente e grave frattura nel contesto culturale contemporaneo ma anche perché, nel confrontarsi con essa, non fa altro che aggravarne la portata. Più grave della morte del cinema, per Tarantino c’è solo la morte della pura esperienza cinematografica, intesa come l’impossibilità di percepire un qualsiasi film in purezza, senza pensare ad altro se non all’impatto che quelle stesse immagini hanno su di noi, istintivamente, senza leggere il prodotto all’interno del suo sistema di riferimento, senza pensare ai meccanismi industriali che il film smuove, senza preoccuparsi di incassi o ricezione critica, semplicemente abbandonandosi a tutte le più diverse sensazioni che una determinata sequenza evoca in noi spettatori.
Once Upon A Time…In Hollywood prende le mosse dal riconoscimento di questo tragico trauma, quasi un’evirazione dello spettatore, che oggi si ritrova privato, dalle sovrastrutture che si dipartono dal film, di questa sorta di meccanismo organico che, evanescente ma straordinariamente concreto, gli ha permesso fino ad un momento nel passato ormai remoto di esperire nel modo migliore del film e mette in scena una vera e propria negoziazione che punta ad attraversare quest’istanza traumatica per teorizzare quando non un modello di spettatorialità nuova una serie di strategie utili a ricucire lo strappo che Tarantino individua tra opera e fruitore.
Curioso è tuttavia notare quanto i confini del vero e proprio disegno ideologico di Tarantino siano molto più contenuti di quanto si possa credere in un primo momento.
Once Upon A Time…In Hollywood è un film che, pur parlando di spettatorialità, di fruizione, del modo in cui gli altri percepiscono l’opera d’arte è pienamente ripiegato sul suo creatore e demiurgo.
È un film di Quentin Tarantino su Quentin Tarantino e, in realtà, le ragioni precise di questa scelta sono facilmente individuabili. Tarantino sa, in cuor suo, di essere tra i pochi ad aver ravvisato la frattura tra spettatori, opera e sistema che è la rovina del cinema contemporaneo e probabilmente percepisce per questo la responsabilità di sporcarsi le mani in prima persona nella ricerca di una soluzione al problema, utilizzando in un secondo momento proprio il film (e la sua personalità) per permettere a questa stessa lettura ordinata dei fatti di riverberarsi in tutta la sua pregnanza sui suoi spettatori. Tarantino come un agnello sacrificale, Tarantino come un messia illuminato pronto a leggere la realtà al nostro posto, ma anche Tarantino come prima persona singolare, come “Io Sono”.
Si parte da lui, poi, soltanto in un secondo momento, vengono gli spettatori.
A ben guardare, ciò che si è andato a perdere nel rapporto tra film e pubblico è quel sentimento di cinefilia istintiva, diretta, fine a sé stessa, che è la base del rapporto di Tarantino con il cinema e a cui, in un modo o nell’altro, si dovrebbe tornare.
E dunque, partendo dal presupposto che il film segue un’impostazione straordinariamente soggettiva al centro di Once Upon A Time…In Hollywood c’è proprio la cinefilia di Tarantino, più precisamente, Once Upon A Time…In Hollywood altro non è, prima di qualsiasi altra cosa, che il tentativo di ricostruire un atlante sentimentale della cinefilia del suo regista.
Si parte, come detto, dal corrispettivo materiale di quello strappo ideologico a cui si accennava, e quindi tutto prende le mosse da quel 9 Agosto 1969 in cui la follia della Manson Family esplose in tutta la sua insensatezza con gli omicidi di Cielo Drive. Si lavora, però, sui prodromi della tragedia, sulle eventuali conseguenze, sui confini, sulle eco di questa ferita.
La notte degli omicidi è tenuta sullo sfondo, incombe sul film e sui personaggi ma è costantemente rimandata, quasi che l’omicidio Tate fosse una sorta di rimosso che l’inconscio sta cercando di nascondere sotto al tappeto ma che non può essere eluso per sempre.
Si è scelto, in realtà, il termine “rimosso” non a caso.
La Los Angeles di Once Upon A Time…In Hollywood è infatti assimilabile ad uno spazio mentale, una costruzione sintetica ma straordinariamente umana, un diorama delicato e affettuoso di un tempo passato che per Tarantino è il primo motore della sua personale terapia d’urto contro il trauma. Hollywood diventa dunque un ambiente inquietante ma caloroso, patinato ma a misura d’uomo, poetico, quasi gentile, immerso in un silenzio innaturale, rotto solo dalle radio delle auto in corsa e dal suono lontano dei drive in.
La Los Angeles con cui si confronta lo spettatore è la città com’era percepita dal giovanissimo Tarantino. Una sorta di paese dei balocchi dello star system, popolata da divi e creativi lontani dai tipici eccessi della categoria (la rappresentazione che ci offre il film della vita quotidiana di Sharon Tate, Roman Polanski e del loro seguito non può essere più casalinga e ordinaria di così, malgrado i party mondani a cui partecipano ogni sera), cordiali e, soprattutto, pronti ad offrire al pubblico ciò che il pubblico vuole: un cinema d’intrattenimento diretto, genuino e a misura di spettatore.
A sostanziare, a porsi come una sorta di punto di fuga da cui si dipartono le linee che vanno a tratteggiare lo spazio di Once Upon A Time In Hollywood è la drammaturgia sonora, in cui, in un caos volontario, finiscono per dialogare classici surf-rock, piccole perle psichedeliche e stralci di spot dell’epoca, in un caleidoscopio che segue di pari passo la definizione dello spazio e che funge da ulteriore appiglio con la giovinezza del regista, che sembra voler riportare sulla scena i momenti in cui saltava da una stazione all’altra sulla sua radio a transistor, magari nascosto sotto le coperte.
Di nuovo, inaspettatamente, riemerge il tentativo di ricreare almeno l’essenza di un’esperienza di fruizione di un prodotto artistico (in questo caso la musica) a partire da un panorama di rovine.
Una volta costruito il suo spazio mentale a Tarantino non resta altro che popolarlo. Per fare ciò, il regista sembra tornare a quell’impostazione psicoanalitica che innerva il suo film.
I tre personaggi che reagiranno con questa Hollywood del 1969 ancora inconsapevole della sua rovina, Cliff Booth, Rick Dalton e Sharon Tate sono in effetti, almeno da un certo punto di vista, personificazioni fantasmatiche di tre identità diverse di Quentin Tarantino stesso.
Rick Dalton è null’altro che il Quentin Tarantino percepito (dalla critica, dai colleghi, poco cambia in realtà): un uomo di spettacolo in cuor suo conscio del proprio valore ma al contempo insicuro perché costantemente messo in ombra dalla modernità delle nuove generazioni (e, soprattutto, dei nuovi linguaggi). Dalton ha finito le frecce al suo arco e potrà ambire al massimo ad un riciclo di sé, della sua identità artistica, nei circuiti di second’ordine, continuando a vivere di quei tratti stilistici che lo caratterizzano, ormai ridotti a cliché, che gli hanno garantito il successo finora, che è poi ciò che certa critica pensa di Tarantino. Rick Dalton però conserva il germe dell’eroe, non tanto perché è il protagonista della storia ma perché per Tarantino è chiaramente il relitto sano di una golden age che non c’è più, un’icona come solo un cowboy al centro di quegli amatissimi serial western trasmessi in sindycation dalla CBS, ingenui forse, ma straordinariamente affascinanti, possono essere e gli eroi meritano salvezza.
Dalton trascorre un periodo in Italia, lavora con alcuni dei registi che in quegli anni stavano riscrivendo le regole dei film di genere (ancor meglio, lavora con coloro che si approcciavano al cinema con quella genuinità che l’America dello Studio System aveva perso) e torna in Italia maturo e forte di una nuova consapevolezza, ponendo a frutto quel risciacquo in Arno, quel rispetto per la tradizione del cinema di genere italiano che è una delle fondamenta del cinema di Tarantino stesso.
Cliff Booth, la spalla di Rick Dalton è, letteralmente, l’ES di Tarantino, la scheggia impazzita della sua identità autoriale, l’entità che raccoglie (e il fatto che sia uno stuntman, una controfigura per le scene più pericolose la dice lunga in tutto ciò) la sua spinta iconoclasta, aggressiva e ironica al contempo nei confronti dello spettatore ma anche del cinema (suo e degli altri).
Booth è in effetti un professionista burbero ma tutto sommato gentile, che tuttavia a volte esplode in improvvisi accessi di violenza spesso fine a sé stessa, ma soprattutto Booth è colui che, in una sequenza emblematica, farà a cazzotti contro Bruce Lee, portando in scena (stavolta letteralmente), quella distruzione e ricomposizione iconografica che è al centro del cinema di Tarantino.
Terzo vertice di questo triangolo magico è proprio Sharon Tate che, nell’economia simbolica di Once Upon A Time…In Hollywood altro non è che la rappresentazione del lato più infantile, più puro del cinema di Tarantino. Sharon Tate è la rappresentazione fisica della cinefilia più sana, è il punto zero del rapporto tra arte e fruitore. È lì che bisogna tornare, al suo sguardo sognante mentre è seduta nella sua poltrona al cinema, al sorriso emozionato sfoggiato mentre si rivede sullo schermo, alla sua genuinità, all’emozione tangibile che traspare mentre si confronta con la macchina malgrado sia essa stessa un meccanismo del sistema. È a lei che bisogna tornare, solo così, forse, la meraviglia del rapporto tra arte e spettatore sarà ricostruita e preservata.
Quentin Tarantino sta vivisezionando il suo essere, la sua identità, in rapporto al cinema. Ne ha osservate le radici culturali nella sua ricostruzione di Los Angeles, ne ha toccate le sfaccettature osservando le interazioni tra i suoi tre protagonisti ma manca ancora, in effetti, un reagente attraverso cui queste premesse possano esplodere in tutto il loro potenziale.
Quasi ovvio riconoscere come il collante che tiene insieme le basi delle riflessioni di Tarantino sia proprio quella postmodernità a cui prima si accennava e che, di fatto, sostanzia ogni discorso sotteso a Once Upon A Time…In Hollywood. La frammentarietà, il gioco di citazioni, la riemersione di spunti da un immaginario dimenticato, tuttavia, organizzano un discorso per certi versi inedito anche per gli standard di Tarantino stesso. Il postmoderno in Once Upon A Time…In Hollywood opera costantemente su due binari paralleli, uno centripeto, rivolto al film, ai suoi discorsi intrinseci e, in particolare, strettamente legato al Tarantino autore, l’altro squisitamente centrifugo, pronto a rivolgersi (in questo caso sì), agli spettatori.
Al primo caso è riconducibile tutto quel patchwork di spunti e citazioni cinefile che popolano che di fatto sostanziano l’atlante sentimentale della cinefilia del regista. In un costante gioco di specchi tra passato e presente il film organizza una fantasmagoria cinefila a più strati che parte dall’inserimento di locandine di film dell’epoca sui cartelloni pubblicitari, immagina da zero film cult italiani di quegli anni mai esistiti ispirati a veri b-movies, organizza veri e propri re-enacting di sequenze di serie tv di culto dell’epoca, inserisce i protagonisti in capolavori del passato (e, in questo senso, i pochi secondi di Rick Dalton in The Great Escape appaiono come il tentativo di rinforzare e rendere omaggio a quella tradizione di genere che ha formato il regista) e arriva fino a utilizzare alcune sequenze per autocitare quello che diventerà il cinema di Tarantino (pensiamo a Sharon Tate che si allena con Bruce Lee esattamente come faceva Beatrix Kiddo con Pai Mei).
Nel secondo caso il postmoderno diventa il grimaldello con cui Tarantino prova, a suo modo, a ricostruire il rapporto fruttuoso tra arte e spettatorialità finora teorizzato. Per farlo, allarga le maglie del tessuto filmico e lascia che con esso interferiscano le forme cardine di quel intrattenimento diretto e istintuale che continua a rincorrere per tutto il film.
Nell’organizzare alcune sequenze, Tarantino rende in effetti evidenti i debiti contratti con il cinema della New Hollywood (pensiamo a quanto, la prima parte della sequenza che vede Booth addentrarsi nel ranch di Manson debba al cinema di Tobe Hooper o anche a quanto, gli inserti del voice-over in stile documentario, rimandino all’approccio Fly On The Wall che raggiunse il suo apice in quegli anni) ma anche con il puro cinema di arti marziali (la scazzottata tra Booth e Bruce Lee) e con l’intrattenimento televisivo degli anni ’60 (pensiamo a quanta cura della messa in scena e della scrittura c’è nella lunga sequenza di Tanner con Dalton nei panni del villain che occupa una densa porzione del film).
L’obiettivo è, chiaramente, quello di far riavvicinare il pubblico a quelle sensazioni non mediate, semplici, che caratterizzavano l’esperienza cinematografica in quegli anni, nel tentativo, tanto ambizioso quanto folle, per certi versi, di ricostruire disperatamente forse l’unico elemento dell’esperienza cinematografica che, a detta di Tarantino, non può perdersi né mutare eccessivamente con il passare del tempo.
È un’azione estrema, con buona probabilità Tarantino se ne rende conto, ma è al contempo il grido disperato di un creativo che è pronto anche ad operare all’interno di una realtà chiaramente posticcia pur di non abbandonare una delle fondamenta di ciò che per lui vuol dire cinema. Forse, nel profondo, la sua speranza è che qualcuno comprenda davvero il suo messaggio e prosegua da dove lui si è fermato, perché ciò che lui ha creato è, fin dal suo epilogo, un racconto visionario che, partendo dalle premesse di Inglorious Bastards spinge all’estremo il rapporto con la storia e finisce per creare una realtà alternativa straordinariamente positiva, luminosissima ma fine a sé stessa, se nessuno comprende l’entità del vero e proprio racconto morale che sottende.