Il Re Leone di Jon Favreau – Riscoprire Il Passato Nel Nuovo
Dopo i recenti Dumbo di Tim Burton e Aladdin di Guy Ritchie, tocca a Il Re Leone di Jon Favreau portare avanti quel particolare filone attraverso il quale la Disney sta riproponendo i propri classici d’animazione in un formato comodamente definito come remake Live Action. Prima di entrare nel dettaglio e analizzare il film di Favreau nella giusta prospettiva, è necessario fare il punto della situazione, non solo per poter capire di cosa si sta parlando, ma soprattutto per evitare di cadere in quella fastidiosa trappola che porta a giudicare frettolosamente un remake come un’inutile e pretestuosa operazione colpevole di “danneggiare” un’ottima pellicola, amata da una generazione di spettatori, spesso fan accaniti, pronti ad alzare gli scudi contro chiunque metta mano a qualcosa che per loro è “intoccabile”.
La prima considerazione riguarda proprio il pregiudizio legato a queste pellicole. Di fatto nessun rifacimento, al di là di chi e del come viene realizzato, può in qualche modo modificare, stravolgere e men che meno danneggiare qualcosa che già esiste. Nel peggiore dei casi il risultato sarà semplicemente un brutto film, una nuova versione poco memorabile, che passerà di tanto in tanto in tv per poi sparire del tutto. Nella migliore delle ipotesi, invece, si ha la possibilità di assistere a come un regista, uno sceneggiatore o un produttore decida di agire sul materiale di partenza offertogli per portare avanti un’opera segnata dalle proprie istanze artistiche. Un po’ come quando si assiste all’ennesima trasposizione teatrale di un’opera di Shakespeare o di Goldoni (per fare due nomi). La messa in scena, lo stile e il linguaggio rispetteranno le scelte dell’autore proponendo una versione aggiornata e al passo con i tempi, pensata per un pubblico più giovane e capace di spingersi oltre, spostando l’attenzione su altri motivi di riflessione, magari arrivando persino alla scelta di decostruire e/o mostrare sotto una nuova luce quell’aura mitica che un classico si porta dietro.
Nel caso di questi remake Live Action è bene tenere presente che stiamo parlando di pellicole fondamentalmente innocue, pensate per incassare molto facendo leva sulla nostalgia dello spettatore medio e in cui si sperimenta la resa di intere sequenze animate con una messa in scena dal vivo grazie a dei budget spropositati. Riflettendoci bene non si può neanche parlare di remake veri e propri, perché se è innegabile il forte richiamo nostalgico che si viene a creare nel momento in cui viene rigirata una particolare scena o viene ripresa quella canzone per cui abbiamo consumato il VHS da piccoli, è altrettanto rilevante la scelta da parte delle menti creative della Disney di lavorare sulla scrittura, di ampliare o addirittura riscrivere intere linee narrative, inserire nuovi personaggi, cambiare alcune dinamiche tra gli stessi.
Il film Alice in Wonderland (2011) è fondamentalmente un sequel del cartone animato del 1951, che arricchisce il proprio immaginario ripartendo dal materiale letterario di L. Carroll e dalle scelte stilistiche del regista Tim Burton; Maleficent (2014) altro non è che la favola di La bella addormentata nel bosco vista attraverso gli occhi dell’antagonista e non della principessa Aurora. Ritorno al bosco dei 100 acri di Marc Foster (2018) è stato pensato come un sequel di Le avventure di Winnie the Pooh e libero adattamento dei romanzi di A. A. Milne, in cui il protagonista è Christopher Robin divenuto adulto e padre di famiglia. Non dissimile il discorso si potrebbe fare per Oz: The Great and Powerful (2013) di Sam Raimi che, seppur alieno rispetto al canone, poiché non tratto da un film d’animazione, ma piuttosto pensato come prequel del film di Victor Fleming del 1939, rielaborava e ampliava la storia del misterioso Mago incontrato nel finale dalla piccola Dorothy. Persino nelle trasposizioni più fedeli, accusate di essere poco inventive, operano in realtà in modo non dissimile pur mantenendo l’intreccio di base del prototipo animato. Anzi, proprio secondo questa impostazione, la Disney ha forse trovato i suoi risultati più felici, grazie ad un tessuto narrativo più solido, capace di funzionare andando oltre la riproposizione pedissequa di certe sequenze, l’effetto nostalgia che ne deriva, il dispiego di CGI, le scenografie e i costumi sontuosi. Cenerentola di Kenneth Branagh (2015) risulta vincente non solo per la magniloquenza delle scenografie o per la caratterizzazione visiva (si pensi solo al cambio d’abito della protagonista o allo stile della matrigna e delle sorellastre) ma anche nella scelta di impostare e ricollocare le dinamiche tra i personaggi in una dimensione più realistica, ad es. nel rapporto che si instaura tra Cenerentola e il Principe (a cui viene dato un nome, cosa che non accadeva nel cartone), dove l’innamoramento si sviluppa attraverso tappe più distese e credibili rispetto al cartone o ad altre versioni dello stesso racconto. Il Libro della Giungla (2016), diretto dallo stesso Favreau de Il Re Leone, oltre ad averci regalato una delle pellicole che meglio ha saputo ripartire dallo studio sul digitale (mi riferisco alla perfetta ibridazione tra l’attore in carne ed ossa e figura ricreata digitalmente) per una resa più adulta e avventurosa del viaggio di Mowgli, è riuscito nelle modalità in cui ha rimaneggiato tutto l’immaginario del classico di Wolfgang Reitherman, ripartendo sì dal classico, ma soprattutto dal testo di R. Kipling, per concentrarsi maggiormente sul racconto coming of age del protagonista e ridefinendo i personaggi animali attraverso una caratterizzazione visibilmente più cupa (vedasi le cicatrici di Sher Khan, l’aspetto di King Loui o l’apparizione del serpente Ka). Persino con un titolo non perfetto come La Bella e la Bestia di Bill Condon (2017), che pure riproponeva in modo pedissequo le scene più iconiche, sposando in pieno il carattere musicale e retrò del cartone, si è tentato uno sviluppo maggiore nel rapporto tra Belle e il principe mostro, che mettesse in evidenza come entrambi siano due emarginati nelle rispettive realtà a cui appartengono, oltre che due giovani uniti dalla comune passione per la lettura.
Ciò non toglie, anzi è giusto metterlo in chiaro, che rispetto ad altri franchise (anche disneyani) stiamo parlando di una linea produttiva ancora poco a fuoco in termini creativi, pavida nelle scelte, altalenante nei risultati al botteghino e nella ricezione. Se Alice in wonderland ha ottenuto un incredibile consenso da parte del pubblico, nonostante l’accoglienza piuttosto fredda da parte della critica, il successivo Alice Through the Looking Glass di James Bobin (2016) è stato un flop colossale, accompagnato anch’esso da pessime recensioni. Se Alice è stato il film di maggior successo al botteghino nella carriera di Tim Burton non si può dire lo stesso per Dumbo (2019), una pellicola fallimentare negli incassi e non completamente risolta sul piano stilistico e narrativo. L’ Aladdin di Guy Ritchie, nonostante le ottime cifre raggiunte in termini di incasso, si è rivelata una pellicola in cui il regista di Sherlock Holmes e King Arthur non sembra essere riuscito a dare un’impostazione decisa al progetto tradendo le proprie istanze autoriali (non allineate a quelle di casa Disney), con un risultato senza dubbio solido sul piano narrativo ma piuttosto pasticciato e stanco nella gestione delle scene. Persino il rifacimento del classico Pete’s Dragon per la regia di David Lowery del 2016, che riprendeva con intelligenza alcune scelte già operate da Favreau nella ridefinizione dell’immaginario originale, e il sequel di Mary Poppins diretto da Rob Marshall del 2018 (in realtà più simile ad un remake) hanno avuto poca presa in termini economici (anche se qui si parla di due lungometraggi realizzati in tecnica mista).
Provando a bilanciare da un lato l’accoglienza generale di queste pellicole e i giudizi contrari di chi (riprendendo a grandi linee una recensione presa a caso) le definisce “fredde operazioni commerciali, ottimamente realizzate dal punto di vista tecnico ma prive di qualsivoglia interesse artistico”, si può dire che il dibattitto sulla questione resti ancora aperto e non è un caso se alcune critiche mosse nei confronti de Il Re Leone siano scaturite sin dai primi trailer. Ed è proprio Il Re Leone il titolo che offre più facilmente il fianco a determinate discussioni, da un lato per l’impostazione strutturale data da Jon Favreau e dallo sceneggiatore Jeff Nathanson e in seconda istanza, dal presupposto concettuale su cui si basa l’intero progetto.
Partendo dalla storia, l’intreccio è pressoché identico a quello del film di Roger Allers e Rob Minkoff. Le scene più iconiche sono riprese con una fedeltà quasi stucchevole (ripensiamo solo alla prima sequenza in cui assistiamo alla presentazione di Simba, cucciolo di leone destinato a diventare re) e a differenza di quanto fatto con Il Libro della Giungla, i momenti musicali sono stati quasi tutti mantenuti (con la sola, particolare eccezione di “Sarò Re”, canzone attraverso cui l’antagonista Scar espone alle iene il piano omicida nei confronti del fratello Mufasa e del nipote Simba per ottenere il trono) così come alcune linee di dialogo. Dal punto di vista formale la scelta operata da Favreau, ovvero traslare l’immaginario cartoonesco dentro una cornice che mette al suo centro la natura con spazi più vicini al reale (seppur anch’essi ricostruiti tramite computer graphics, tanto che è più logico parlare di trasposizione fotorealista che non di Live Action vero e proprio) è stata definita pretestuosa perché va a intaccare quelli che erano i punti di forza del prototipo (i colori caldi della savana, le forme dell’animazione, l’espressività nei volti degli animali) restituendo così una versione sicuramente più asettica ma solo all’apparenza poco coraggiosa e puramente nostalgica. Visto nella giusta prospettiva e accettando gli evidenti limiti che il regista e i suoi collaboratori non sono riusciti del tutto a superare all’interno dell’operazione, Il Re Leone rappresenta comunque uno dei risultati più consapevoli e precisi del filone di remake portato avanti dalla Walt Disney Pictures.
Spieghiamoci meglio.
Nella scelta di mantenere intatta la riconoscibilità dell’originale, Favreau mostra un rispetto ammirevole per il prototipo ma ciò serve solo parzialmente a risvegliare quel richiamo nostalgico di cui si parlava sopra. Il film è costruito soprattutto per piacere ad un pubblico giovane, ai bambini di oggi, ma è ancor più chiara la volontà di parlare all’adulto seduto in sala che già conosce il cartone animato a menadito. Il Re Leone del 2019 crea spesso dei piccoli cortocircuiti che permettono di dialogare con il passato e la memoria del prototipo attraverso una serie di riferimenti metatestuali (ad es. in un paio di battute messe in bocca a Timon e Pumba quando intonano Hakuna Matata) o persino, in un segmento particolare, una spassosa e dissacrante citazione riferita ad un altro titolo dell’universo Disney.
Un altro aspetto significativo è proprio nell’approccio visivo e registico scelto da Favreau, deciso a portare avanti il lavoro sulla forma e sulle potenzialità del digitale visti ne Il Libro della giungla, restando coerente al proprio stile e ad un senso della messa in scena più moderno e realistico. Tutto ciò è evidente nella volontà di giocare meno con il fantastico, di ridimensionare la dimensione più fanciullesca e colorata del classico d’animazione rinnovando, al contempo, quei temi portanti quali la responsabilità individuale, il rispetto nei confronti della natura, il coraggio di affrontare il passato e di non dimenticare mai chi si è, per mantenerli e riproporli sotto un profilo più adulto.
Se è un dato di fatto che il dramma shakespeariano sia stata un’influenza fondamentale per il cartone animato con tutti i suoi evidenti richiami all’Amleto, Favreau riparte dagli aspetti cardini del testo teatrale e dal significato archetipico delle figure principali: Mufasa è il re saggio e illuminato che ricorda come il vero scopo di un sovrano “non è cercare quello che si può prendere, ma quello che si può dare”; Scar è colui che brama e ottiene il potere con l’inganno e il tradimento al pari di un Re Claudio; Timon e Pumba incarnano quella leggerezza che serve a spezzare il dramma consumatosi davanti agli occhi del piccolo Simba. Tutto ciò riuscendo anche a dare un ampliamento dei personaggi tramite sfumature più complesse. Ciò è evidente nella caratterizzazione di Scar, un essere spregevole e malvagio, ma anche desideroso di una rivalsa, di un ruolo che sente suo di diritto ma che gli è stato negato (la famosa cicatrice diviene il segno della sconfitta ricevuta in seguito ad una lotta contro Mufasa). Le iene non sono più semplici galoppini al servizio dell’antagonista, ma figure violente e ribelli, animali capaci di ascoltare solo la pancia senza il minimo rispetto per la vita o per le altre creature della savana. Nella caratterizzazione di Simba, al senso di colpa per la morte del genitore viene aggiunta una componente più complessa, legata alla paura e al senso di inadeguatezza verso la responsabilità di essere re. Se da cucciolo si comporta in modo imprudente, disobbedisce e si mette alla prova per dimostrare di essere degno del ruolo di re, da adulto è vittima della paura e dei fantasmi del passato, sentimenti che gli impediscono di reagire e credere in se stesso (un aspetto che viene messo in evidenza nel dialogo con Mufasa o nel confronto finale sulla Rupe dei Re) ma che dovrà affrontare per poter realizzare il proprio destino. Se poi non sorprende più di tanto il maggior spazio dedicato alle figure di Nala e Sarabi, c’è da dire che, per fortuna, le caratterizzazioni non assumono mai atteggiamenti forzati o posticci, visti ad esempio con il personaggio di Jasmine nel recente Aladdin, con evidente sottotesto legato al MeToo.
Il momento in cui Scar pianifica l’omicidio di Mufasa e si rivolge alle iene nel Cimitero degli Elefanti è uno dei più significativi di questo cambio di regia, proprio perché perde la componente musical a favore di una scena più serrata e drammatica, in cui mettere da parte i riferimenti al nazifascismo delle coreografie animate a favore di una teatralità dove si inseriscono chiari rimandi alle attuali politiche populiste. La stessa filosofia incarnata nel motto Hakuna Matata esprime una concezione della vita ben più nichilista rispetto a quanto traspariva dal cartone animato. In fondo, se è necessario accettare che le cose brutte accadono e guardare avanti, riflettere sull’esistenza e guardarla essenzialmente come una linea retta inutile conduce ad una totale indifferenza nei confronti degli altri e a dimenticare quelle responsabilità che ognuno di noi ha nei confronti del mondo circostante.
In conclusione è giusto chiarire un ulteriore punto di riflessione, che all’apparenza può sembrare banale ma si rivela necessario all’interno dell’analisi qui proposta: al di là di tutto, Il Re Leone del 1994 resterà il film immortale che tutti ricordano, il suo valore, ciò che è stato per una generazione, ciò che per sempre sarà è lì, intatto e vivo. Ed è proprio nel senso pieno del suo messaggio fondante, in quel cerchio della vita secondo cui il corpo di un leone è destinato a diventare erba per nutrire l’antilope, che a sua volta nutrirà il leone che verrà, che si va a inserire la versione del 2019: una riflessione sul passato che alimenta il nuovo. Jon Favreau sa con cosa si sta confrontando, accetta di far proprio questo motivo e decide di applicarlo al suo adattamento tanto da esplicitarlo in una sequenza significativa, che pone al centro proprio il senso della circolarità della vita. Se il classico animato ha nutrito la fantasia di un’intera generazione di spettatori grazie alle tecniche d’avanguardia del disegno animato, questo nuovo Il Re Leone riparte da lì per tramandarne la storia e il significato al pubblico di oggi attraverso l’illusione “realistica” e le moderne possibilità offerte del digitale ma riattualizzando e rileggendo sotto una lente diversa le medesime riflessioni. Il risultato resterà sicuramente meno magico, compassato e ancora eccessivamente chiuso tra le maglie di un tradizionalismo troppo ingombrante, ma tutt’altro che sbagliato o discutibile grazie alla chiarezza d’intenti più volte mostrata all’interno dell’opera stessa.
Ora resta da capire come si muoverà la Disney in futuro. Riuscirà a proporre “remake/sequel” capaci di osare di più, sempre in modo consapevole, e di operare (magari) scelte non dissimili da quelle intraprese con i franchise di Star Wars e del Marvel Cinematic Universe, ad esempio, in termini di decostruzione e smitizzazione di certi archetipi? Tornerà ad nella riscrittura/ribaltamento di un intero immaginario, come accaduto con Maleficent (in attesa di vedere il sequel che uscirà ad ottobre) o Lo Schiaccianoci e i Quattro Regni (altro titolo non direttamente ripreso dal canone) oppure continuerà sui sentieri già battuti? Soprattutto, sarà capace di mettere da parte i progetti più vuoti, caotici e stucchevoli di questa linea editoriale (vedasi il caso Dumbo, il sequel di Alice)? Nei futuri progetti sapranno affidare il giusto ruolo creativo al regista di turno, sfruttandone le potenzialità in modo costruttivo e provando commistioni più coraggiose nella ridefinizione del genere, come sembra mostrare sin dalle prime immagini il prossimo Mulan di Nikki Caro? La questione, per ora, resta ancora aperta.
Laura Sciarretta