Greta Van Fleet – Chi Sono E Chi Non Potrebbero Mai Essere

Greta Van Fleet – Chi Sono E Chi Non Potrebbero Mai Essere

Chi sono i Greta Van Fleet e perché ci troviamo qui a parlarne? Riassumendo brevemente la loro storia recente, possiamo dire che il quartetto hard rock – blues, nato a Frankenmuth, Michigan, composto da Josh Kiszka (voce), Jake Kiszka (chitarra), Sam Kiszka (basso) e Danny Wagner (batteria), nasce nel 2012, giungendo nel marzo 2017 alla firma con Lava Records e la pubblicazione del loro primo EP Black Smoke Rising, che contiene anche il loro primo singolo Higway Tune, il quale riscuote un notevole successo negli Stati Uniti. A novembre dello stesso anno i Greta Van Fleet pubblicano il loro secondo EP From The Fires, il quale contiene i brani del precedente EP e altri quattro brani tra cui una cover di A Change Is Gonna Come di Sam Cooke e una di Meet on the Ledge dei Fairport Convention. Il 19 ottobre 2018, i Greta Van Fleet pubblicano il loro primo vero album, Anthem of the Peaceful Army, raccogliendo contemporaneamente il frutto del loro precedente lavoro con quattro nomination ai Grammy Awards come Best New Artist (da loro vinto già nell’edizione del 2017), Best Rock Performance per Highway TuneBest Rock Song per Black Smoke Rising e Best Rock Album per From the Fires

Nel corso di questa ascesa verso una dimensione di sempre maggiore popolarità e di pubblico, i Greta Van Fleet hanno raccolto pareri contrastanti e hanno animato il dibattito nella comunità di ascoltatori di musica rock come non accadeva da tempo, ed è proprio per questo che siamo qui a discutere non solo della loro musica, quanto più di che cosa questo dibattito ci dice del mondo degli appassionati di rock di questi tempi.

Il filo conduttore dei due EP e del recente album dei Greta Van Fleet è sicuramente un forte richiamo al sound del rock a cavallo tra i ’60 e i ’70 e all’estetica e alle tematiche del rock di quel periodo. In particolare, a chiunque li ascolti anche solo la prima volta, viene in mente un nome ben preciso a cui accostarli, ed è un nome assai ingombrante da gestire: Led Zeppelin. 

Ovviamente, avvicinarsi così pericolosamente al sound e all’iconografia di Robert Plant, Jimmy Page, John Paul Jones e John Bonham e pensare di non innescare reazioni quantomeno contrastanti tra coloro che compongono l’eterogenea comunità di ascoltatori potrebbe essere frutto solamente di follia o scarsa consapevolezza di ciò che si sta facendo. I Greta Van Fleet non sono la prima band che richiama più o meno esplicitamente il suono degli Zeppelin, prima di loro, e solo per rimanere più o meno nell’ultimo decennio, diverse sono state le creature rock a loro accostate, come i Raconteurs, gli Answer, i Rival Sons  e l’inizialmente assai promettente parabola dei Wolfmother. Il peccato originale dei Greta Van Fleet tuttavia sembra essere, secondo una buona fetta di pubblico, l’essere fin troppo simili alla loro palese fonte di ispirazione, e il furiosissimo sdegno di coloro che li considerano cloni dei Led Zeppelin cresce ancora di più quando i quattro di Frankenmuth ottengono l’endorsment di artisti come Elton John (che con loro ha suonato durante il party degli Academy Awards 2018 la sua Saturday Night’s Allright for Fighting e il brano You’re the One contenuto invece in Anthem of the Peaceful Army), Elliot James, Slash e diversi altri nomi importanti del panorama musicale internazionale. Lo stesso Robert Plant in una recente intervista, pur sottolineando la palese somiglianza del sound della band con quello di Led Zeppelin I, in particolare la vocalità di Josh Kiszka “rubata” proprio alla sua con i Led Zeppelin, ha lasciato intendere simpatia per i Greta Van Fleet e il loro vocalist con un “I hate him” (“Lo odio!”) lanciato prima di un sorriso che tradisce un accenno di nostalgia per la propria gioventù, che ha tutto meno che il sapore di una critica.

Se più frequentemente si assiste a manifestazioni di conservatorismo tra gli ascoltatori di musica rock, a difendere una identità che non ammette variazioni oltre un certo (discutibile) limite e che hanno fatto dell’etichettamento musicale il proprio passatempo preferito, la reazione di una parte della comunità di ascoltatori di questo genere musicale ha prodotto una forma alternativa di ostilità, ossia l’avversione a chi assomigli troppo ad una divinità dell’Olimpo rock come i Led Zeppelin, come se una qualche forma di regola non scritta vietasse l’avvicinarsi al suono dei grandi del passato.

Non per ridurre questa riflessione ad un semplicistico “sì, assomigliano ai Led Zeppelin, qual è il problema?”, ma seriamente, qual è il problema? Sul web e nelle discussioni tra appassionati e musicisti si assiste anche ad elaborate teorie complottistiche che vedono loschi discografici riunirsi e studiare a tavolino questa band per fini non ben specificati, perché immaginare che quattro ragazzi di una cittadina del Michigan adolescenti fossero cresciuti ascoltando rock e volessero scrivere e portare in giro la loro musica che si ispira dichiaratamente a quel sound è una spiegazione troppo semplice e banale. La somiglianza tra la musica del quartetto americano con gli Zeppelin è innegabile, ciò che è discutibile tuttavia è che questo diventi automaticamente motivo di biasimo per i Greta Van Fleet. A fronte di questo fenomeno per cui richiamare i Led Zeppelin, e riprendendone anche ingenuamente i cliché, significa fare automaticamente schifo, possiamo intravedere la possibilità di azzardare qualche interpretazione sulla natura di questo automatismo.

Il debutto dei Greta Van Fleet e del loro primo album in questo senso potrebbero essere considerati proprio come una cartina al tornasole delle aspettative e degli atteggiamenti che caratterizzano i rockers di questi tempi. Emerge un atteggiamento spesso incongruente che se da un lato si contraddistingue per l’attesa fideistica in una nuova era del rock che possa riportare questo genere alla diffusione e al peso sociale e culturale che ha lentamente visto abbandonarlo, dall’altro mostra frequentemente una facile ostilità sia verso quelle band che cercano di avventurarsi in nuovi territori musicali, sia verso coloro che scelgono di portare avanti le proprie idee nel solco di ciò che altri artisti hanno lasciato disseminato nei decenni precedenti, con una sincera dedizione nel portare avanti un certo tipo di sound. In entrambi i casi ci vuole coraggio, sia per esplorare qualcosa di ignoto, sia per avvicinarsi così pericolosamente al sound di artisti leggendari che hanno scolpito il proprio nome nella storia della musica, e in ogni caso per farlo bene serve talento. Se chi fa musica lo fa con sincerità e passione per ciò che porta avanti, in qualsiasi genere qualcuno lo voglia incasellare, porta avanti un progetto che merita di essere ascoltato con attenzione e rispetto, rimanendo sempre liberi di ascoltare qualsiasi cosa desideriamo con altrettanta sincerità.

Nel primo album dei Greta Van Fleet c’è ingenuità, forse un pelo di inconsapevolezza, ma bollarli come cloni dei Led Zeppelin significa essersi limitati ad un ascolto molto superficiale, dato che i riferimenti al rock dei ’60 e ’70 non si limita a Page, Plant e compagni, ma include influenze che richiamano Cream, Rush, Jefferson Airplane e molti altri, con un’alternanza di pezzi più o meno ispirati. Significa avere poca fiducia verso un gruppo che ha probabilmente ancora della strada da fare nel definire la propria identità, a cui sembra quantomeno prematuro tarpare le ali al netto di un primo album. Considerare i Greta Van Fleet come coloro che si faranno carico di salvare un genere da un lento oblio è altrettanto discutibile, oltre che poco rispettoso di tutte le altre band e artisti che producono oggi grande musica rock e che, con difficoltà spesso, cercano di arrivare ad un pubblico più ampio. 

Da quel 12 gennaio 1969 in cui uscì il primo disco omonimo dei Led Zeppelin, sono passati 50 anni e il mondo e la sua musica sono cambiati. Forse, piuttosto che criticare una band per la propria musica frutto di impegno e sacrificio, come per tutte quelle band che prima di arrivare alla notorietà hanno passato anni di gavetta in giro per piccoli bar e locali, aspetto a cui i Greta Van Fleet non fanno eccezione, si potrebbero aprire gli occhi su ciò che ci circonda a livello musicale oggi, 50 anni dopo, sulla perdita della funzione sociale della musica che scivola verso un ritorno (quasi) totale ad un ruolo di puro intrattenimento, e sull’impatto che una giovane band può avere su questo panorama nel momento in cui riesce ad oltrepassare quel velo di anonimato che separa ciò che è conosciuto solo dagli appassionati di un genere e ciò che può raggiungere una dimensione più grande. Un ulteriore aspetto che frequentemente sembra venire dimenticato inoltre, è l’età dei quattro ragazzi di Frankenmuth. I Greta Van Fleet sono appena ventenni, ciò significa che hanno l’enorme potenzialità, a volte sottovalutata, di avere ancora un ampio margine di evoluzione, e la conseguente possibilità di maturare e raffinare i loro progetti musicali. Tenendo a mente questo, la scelta estetica e tematica dei Greta Van Fleet di richiamare l’immaginario hippie, così come di citare palesemente quelle che sono le loro fonti di ispirazione a livello artistico, sembra essere una consapevole scelta artistica ed estetica. Non sembra esserci alcuna pretesa illegittima dietro le loro scelte artistiche, visive e musicali. Hanno scelto di incarnare le forme che sono a loro, in questo spaccato del loro percorso, più comode da indossare, avendo scelto di porre le loro fondamenta all’interno di una determinata cultura musicale ed estetica di riferimento. Legittimamente, potremmo aggiungere.

Grande clamore ha generato la recensione di Jeremy D. Larson del primo recente album della band pubblicata su Pitchfork, il quale ha stroncato Anthem Of The Peaceful Army con un punteggio di 1.6/10, definendo i Greta Van Fleet come una band di vampiri (cit. They are a new kind of vampiric band”) costruita ad arte per sfruttare le meccaniche dei servizi di streaming e arrivare alla notorietà. Cosa c’è dietro questa ostilità e queste accuse? La paura che il rock sia giunto ad un punto in cui possa solo tornare indietro e divorare sé stesso? Scoprire che, come in un Truman Show, siamo arrivati alla fine dell’orizzonte? È la necessità della nostra dose quotidiana di giudizi assolutistici a portarci a criticare aspramente e capricciosamente ogni cosa? O forse è l’amore verso la musica e il rock a renderci ciechi ed estremi? Quale sottile passione per la tragicità spinge ciclicamente qualcuno a sostenere che il rock sia morto, o a un passo da esserlo, circa ogni due-tre anni, da più di 40 anni? Forse potremmo fermarci un attimo, apprezzare come sia meraviglioso e incredibile che l’eco degli artisti del passato si riverberi nella passione di giovani musicisti, nell’ispirazione di così tante persone nell’iniziare un cammino, breve o lungo che sia, nella musica, anche a distanza di 50 anni. 

Tralasciando il fatto che lamentarsi della somiglianza in termini melodici e strutturali tra brani blues-rock, suona un po’ come lamentarsi di grassi e calorie mentre addentiamo un Big Mac e tracanniamo Coca-Cola.

Forse è questa la malattia che affligge il rock, che nasce quando invece di vivere la musica come un’esperienza immediata e libera da giudizi a priori, ci si perde nella recriminazione, nella continua e ossessiva analisi critica di ciò che (non) si ascolta. Quando ci si chiede chi è che dovrebbe e non dovrebbe salvare il rock, aspettando un messia che sollevi un genere sulle sue spalle e lo scagli nuovamente oltre i suoi paradigmi. Forse abbiamo dimenticato che nella musica non c’è nulla da salvare, e questa mentalità idealizzante ai confini con il fanatismo religioso volta a tutelare come una specie morente il rock e le sue diverse incarnazioni appare tanto soffocante quanto rigida, avendo come unico risultato l’allontanare quell’esperienza diretta che è la musica, quella forma di cultura e di arte che forse più di ogni altra non ha bisogno di spiegazioni nel goderne pienamente e che può manifestarsi solamente nel presente. Senza nulla togliere al piacere intellettuale di saper apprezzare da un punto di vista tecnico le qualità di una produzione musicale, di una performance dal vivo, di un album, l’esperienza dell’ascolto e del coinvolgimento emotivo non ha nulla di intellettuale, pur non rinunciando alla altrettanta raffinatezza che l’imparare ad ascoltare (non solo nell’ambito musicale) richiede a chi desidera godere pienamente della propria esperienza. Se volessimo allargare ulteriormente la portata di questo aspetto, potremmo sostenere infatti che qualsiasi intuizione profonda sulla realtà non nasce da un rimuginio ossessivo, bensì proprio dal confrontarsi, senza filtri, con ciò che è presente in quel momento, completato da una dimensione che può essere allora lucidamente analitica proprio perché nata da una esperienza diretta di un oggetto, artistico in questo caso, e del contesto sociale e culturale in cui si manifesta.

I Greta Van Fleet non sono i Led Zeppelin, nessun altro potrà mai esserlo, e non c’è alcun bisogno o urgenza che qualcuno lo sia. Semmai quello che la comunità di appassionati di rock potrebbe recuperare è il sincero amore per la musica come esperienza, per la speranza che le nuove band, se sostenute e accompagnate da chi apprezza il loro lavoro e rispettate da chi preferisce altre sonorità, possa crescere e contribuire a quella collettività che è la musica, i cui esponenti sono frutti unici e irripetibili di qualcosa di più grande. La musica è un’esperienza creata da persone per altre persone, e chi è divenuto leggenda nel rock lo è anche grazie a quell’oceano che ha comprato e consumato i loro dischi, che ha affollato club e arene, che ha viaggiato in lungo e in largo per assistere a quella liturgia rock che è un concerto, e che ha preso per la prima volta in mano uno strumento e messo su una band sull’onda di una speranza, di un’idea, di un sogno. Ecco dove si trova la potenzialità di band come i Greta Van Fleet, nella possibilità di rendere pop, nel suo significato più nobile, il rock nelle sue tante e diverse forme, nella possibilità che nel raggiungere la popolarità qualcun’altro inizi il proprio personale percorso nel mondo della musica, sia da ascoltatore che da musicista. 

L’identità stessa del rock è mutevole, cangiante a seconda delle epoche e delle sue sfaccettature, e caratterizzata da un dinamismo innato che è il suo vero punto di forza. Questa capacità di evolversi a volte richiede anche il coraggio e l’incoscienza di riprenderne in mano alcuni dei suoi capitoli più sacri e intangibili. Forse è giunto il momento che il rock e chiunque si sente parte di questa comunità si fermi a riflettere su chi è che sta decretando il declino di questo genere in termini di rilevanza sociale e culturale, aprendoci alla possibilità che sia proprio questo ipercriticismo una delle condizioni che aprono la strada ad una progressiva segregazione culturale del rock e al suo elitario ripiegamento su sé stesso. Un atteggiamento fastidiosamente contraddittorio rispetto a quel principio di libertà, condivisione e apertura mentale verso le diverse forme che può assumere la musica, e la conseguente capacità di cogliere aspetti positivi in un’opera o nel significato che essa può assumere in un determinato contesto.

I Greta Van Fleet hanno ancora molto da mostrare, e il loro Anthem of the Peaceful Army ne è la prova, proponendo un sound che in parte riprende le fila dei due EP precedenti della band, ma inserendo numerosi spunti che lasciano intendere un’evoluzione in corso, un lavoro di consapevolezza che va raffinando alcuni degli elementi che in questi due anni li hanno fatti apprezzare maggiormente e mostrando i primi segnali nell’evoluzione del loro sound in un disco che probabilmente non passerà alla storia, ma che è allo stesso tempo lontano dal meritare critiche tanto feroci. Ma soprattutto, a chiunque si trovi ad osservarli mentre si muovono sul palco, dal vivo, non può sfuggire quanto siano coinvolti e amino ciò che fanno, e la forza della loro motivazione che traspare dalle loro performance è tutt’altro che un aspetto secondario.

Critiche e giudizi netti ci ricordano con quanta facilità alcuni atteggiamenti tendano a ripetersi nel tempo, invitandoci a provare a goderci semplicemente la musica nel momento in cui la ascoltiamo, quando incontra i nostri veri bisogni e sorgono quelle stesse emozioni che ci hanno accompagnato quel giorno che abbiamo deciso semplicemente di ascoltare, e nulla è rimasto come era prima.

Federico Diano


Federico Diano

Nato a Roma, classe ’92. Psicologo. Chitarrista. Gamer. Sincero esploratore di qualsiasi cosa trasmetta delle emozioni e sappia raccontare una storia. Convinto sostenitore che il rock and roll sia in grado di morire e risorgere. Divide la sua vita in prima e dopo aver inserito a 15 anni, per sbaglio, un best-off dei Led Zeppelin nello stereo. Entusiasta collaboratore per gli amici di “Liberando Prospero” dal 2018, in particolare per ciò che è legato alla musica e al videogioco, del quale sostiene e difende la piena maturità e dignità artistica

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