The Odyssey – Florence + The Machine E L’Elaborazione Del Trauma
Florence Welch è sulle barricate dal 2008 ma sembra che nessuno, almeno fino a questo momento, si sia lanciato senza remore o ripensamenti in un’analisi che coinvolga lei, la sua arte e, soprattutto, il suo modo peculiare di rapportarsi ad essa, magari utilizzando come spunto, come leva analitica, un suo disco, una sua performance, insomma, una sua qualche emanazione. Il motivo di questa apparente ritrosia, di questo rifiuto, in realtà è facilmente circoscrivibile all’esatto punto d’incontro tra il ruolo giocato dalle modalità di rapportarsi al reale di Florence Welch stessa ed il suo immaginario, inteso come quella sintesi tra suono e immagini che emerge di volta in volta dai suoi testi che, di fatto, rappresenta il filtro con cui la performer inglese media e problematizza quel contesto socioculturale con cui finisce per confrontarsi.
Fin dall’inizio, fin da quando ha fondato i Florence + The Machine, imponendosi, di fatto, praticamente subito sulla scena alternativa dei primi anni ’00, Florence Welch si è mossa all’interno di una struttura paradossale.
I primi due album del gruppo, ancor più di ciò che li seguirà in futuro, sono quasi totalmente incentrati su Florence stessa e costituito i manufatti essenziali con cui la performer cerca di rimettere ordine nella propria interiorità e in quella che è a tutti gli effetti la sua rete sociale, confrontandosi con elementi quali la depressione, la perdita, l’assenza di prospettive. I testi di Florence Welch sono straordinariamente concreti, quasi violenti, sicuramente sinceri, lucidi nel loro modo di processare la psicologia di chi canta (e, forse anche per questa profonda schiettezza, la cantante inglese è stata refrattaria ad un’analisi più approfondita della sua arte performativa) ma al contempo, questa chiarezza di approcci e di intenti va a scontarsi (ed è proprio qui il paradosso) con la volontà, tutta spostata nel sistema di rappresentazione, che vuole mediare, filtrare, quest’analisi interiore attraverso l’immaginario performativo della Welch.
Al centro di questo paradosso si muove dunque un’entità sfuggente e mutevole che è, di fatto, il corpus interpretativo di Florence Welch stessa, un corpus che vede il testo del brano di turno riferirsi a chi quel testo lo canta (noi lo sappiamo, Florence lo sa) senza però mai o quasi mai tirare in ballo la performer in prima persona, che finisce dunque per sdoppiarsi in una seconda, una terza persona non identificata o prendere corpo in un’entità totalmente originale, quasi che la Welch volesse ammettere in maniera più o meno velata a sé stessa e a chi l’ascolta che l’unico modo per affrontare gli angoli bui della sua vita sia quello di arrogarli, lasciarli incarnare ad una personalità secondaria, quasi un parassita che la libera nutrendosi della sua negatività.
È un desiderio di evasione, quello che parte dall’approccio al testo e al suo ruolo di mediatore, che finisce per investire in primo luogo il vero e proprio immaginario di simboli, personaggi, input visivi che viene evocato dai brani e, subito dopo, quasi per emanazione, per osmosi, anche la pura forma musicale con cui questi stessi brani vengono, di fatto, concretizzati.
Le suggestioni che animano i testi di Florence Welch prendono corpo dalla letteratura gotica, dalla poesia di Edgar Allan Poe, dall’immaginario fantasy, da una personale lettura della filosofia New Age, da cui mutua il rapporto tra corpo, identità ed elementi naturali, dal mito classico, da una visione del sacro in cui il sacro si pone in una dimensione quieta, lontana, distaccata rispetto alla concretezza del mondo. Insito nella gran parte dei testi c’è insomma la spinta a situare il trittico performer, ascoltatore, brano in una realtà altra, labile, eterea, sicuramente artefatta dunque controllabile, il contesto ideale in cui rinchiudere, imprigionare, qualcosa di cui non ci rifiutiamo di parlare, che desideriamo tirare in causa, ma che continua a esercitare su di noi una straordinaria paura. Vogliamo confrontarci con i nostri demoni, ma vogliamo comunque tenerli a distanza.
Questo desiderio più o meno conscio finisce per riverberarsi, lo accennavamo, anche sul puro approccio al suono che caratterizza i primi due album di Florence + The Machine. Gli arrangiamenti sono volutamente ricchi, barocchi, complessi. Tutto il peso del brano sembra essere gestito da archi, percussioni e fiati (i pezzi, nel secondo album, caratterizzati da un’impostazione standard voce batteria, chitarra, basso, sono due su poco meno di venti), e malgrado la voce della Welch sia nella maggior parte dei casi potente, concreta, il disegno sonoro è sfuggente, dinamico, leggero. Ancora una volta il tentativo di spostare la dimensione d’ascolto in uno spazio altro da quello concreto (in questo caso è chiaro si tratti di uno spazio fiabesco, quasi onirico, lontano dalla sensibilità contemporanea) è abbastanza palese, ma ancor più evidente in questo senso è il ruolo ricoperto dalla voce in questa lettura. Molto spesso, in effetti, la voce della Welch viene raddoppiata da un coro posto a tonalità più alte della sua. Le due voci ripetono la stessa porzione di testo ma nella maggior parte dei casi sviluppano due parti di uno stesso disegno testuale, (la voce principale, ad esempio, inizia una frase, il coro la completa o, ancora più interessante, la voce principale inizia una frase, il coro la ribalta), quasi che, attraverso la voce, si concretizzi quel gioco tra conscio e inconscio che si, da un lato rimanda alla dimensione onirica ma che, soprattutto in rapporto all’estetica di Florence + The Machine, ribadisce quell’idea dell’ “io è un altro”, in cui la performer continua a spostare la focalizzazione lontano da sé, in un’altra entità (in questo caso il coro, tra l’altro spesso registrato da lei stessa), nel tentativo di processare gli angoli ciechi della sua interiorità.
Per certi versi comprensibile, tra l’altro, è il motivo per cui si pone in atto questa distanza quasi Brechtiana. Basta in effetti una veloce scorsa ai testi del gruppo per capire che i traumi e le storture che animano le interiorità di Florence Welch prendono spesso corpo in entità dai contorni anche solo suggeriti che rimano con corpi maltrattati, con deformazioni, con un’idea violenta dell’amore, con un’aggressività che dev’essere filtrata insieme al resto delle immagini oscure che emergono dalla mente di Florence e che acquistano concretezza nel momento in cui si incaricano di portare in scena i suoi demoni.
E allora ecco che il rapporto che qualsiasi commentatore finisce per sviluppare con una performer di questo tipo, che sviluppa in una maniera così complessa la volontà di confrontarsi con i propri demoni un rapporto duplice: da un lato la si ammira per il coraggio di costruire i primi due album della sua carriera tematizzando la propria interiorità in maniera così ricca, complessa, varia, dall’altro non la si può che osservare con sospetto, proprio perché la performer inglese, pur non rinunciando al confronto con le negatività non può fare a meno di tenerla a distanza, evitando, sempre, di affrontarle a viso aperto, rischiando di risultare incoerente, superficiale, proprio perché, con buona probabilità, spinge troppo in là, a tratti, i limiti del linguaggio figurale tipico della poesia.
È proprio per questo che l’esperienza di The Odyssey costituisce, finora, un unicum all’interno della produzione della performer inglese, proprio per questo suo voler rivoluzionare in scioltezza il vero e proprio sistema alla base della poetica di Florence Welch, che quest’esperimento multimediale ha attirato il nostro interesse e ha stimolato la nostra riflessione.
Tutto, in realtà, parte da How Big, How Blue, How Beautiful, terzo album dei Florence And The Machine. Sulla carta, dovrebbe essere il momento in cui tutte le istanze e gli approcci studiati, dichiarati nei primi due album giungano al loro massimo grado di maturazione (e, di fatto, proprio del disco della maturità, del “sophomore album”, si tratta), il punto, tuttavia, è che non accade nulla di tutto questo, anzi, di fatto, How Big, How Blue, How Beautiful, rischia di passare come un vero e proprio passo indietro, un ripensamento in rapporto a quanto dichiarato coscientemente o meno, nei dischi precedenti.
Tutto parte, di nuovo, da un contrasto, in effetti, uno dei molti che, come abbiamo visto, animano l’interiorità della performer. How Big, How Blue, How Beautiful è la messa in musica di una separazione, quella avvenuta tra Florence Welch ed il suo ultimo compagno e allora proprio questo momento traumatico, unito ai precipitati dell’inconscio della performer non ancora completamente processati negli album precedenti (la depressione, l’alcolismo, il peso della fama), potrebbe risultare la miccia che fa saltare in aria (e far raggiungere la forma completa) alla complessità di quel sistema di rappresentazione musicale a cui in precedenza si accennava ma tutto ciò non accade. Anzi, malgrado il materiale da processare sia straordinariamente complesso e per certi versi “pericoloso” da approcciare, il gruppo sceglie, a prima vista inspiegabilmente, di procedere per sottrazione.
Gli arrangiamenti orchestrali, gli archi, i fiati, lasciano la scena, ora tutto il suono viene gestito dalla batteria, dalla chitarra, dal basso, dalla tastiera, da una formazione per certi versi “standard” dunque. Anche l’approccio nella composizione dei testi viene rivisto. Il riferimento ad un immaginario-rifugio viene ridotto al minimo e, soprattutto, praticamente ogni singolo brano ha una focalizzazione interna, è, di fatto, raccontato dal punto di vista di Florence stessa, strutturato attorno quella prima persona singolare che troppo spesso, in passato, è finita per latitare.
La sensazione è che Florence Welch, con l’album della maturità, abbia voluto, di fatto, liberarsi in modo lento ma costante delle sue barriere, dei sistemi che l’aiutavano a filtrare le istanze traumatiche che covavano in lei, fino a confrontarsi con esse guardandole, di fatto, negli occhi.
Si tratta di una presa di posizione e di coscienza molto forte, che però acquista ancora più significato nel momento in cui ci si avvicina proprio con The Odyssey.
The Odyssey è un progetto multimediale, ufficialmente un video-album cioè un cortometraggio in cui i video di alcuni dei singoli tratti dall’album vengono montati insieme ad altri segmenti filmati fino a creare una narrazione coesa e coerente, collegato direttamente al terzo album della band e diretto da Vincent Haycock. Di fatto è solo uno dei molti esperimenti che lavorano sulla comunicazione tra arti differenti già svolti dalla band, dopo il video di Spectrum diretto da David LaChapelle e prima dei video dell’ultimo disco coreografati da AG Rojas ma, ad oggi, è forse il suo progetto più ambizioso.
I motivi di questa considerazione in realtà risultano abbastanza evidenti anche solo ad un approccio superficiale al progetto di Haycock.
The Odyssey è la messa in scena dei conflitti che animano i singoli brani dell’album. Le atmosfere sono quelle del purgatorio dantesco, con Florence Welch che si muove, durante ogni singola parentesi performativa (ogni video musicale) in un ambiente differente per confrontarsi con uno o più demoni del suo passato, con uno o più dei suoi traumi, fino a raggiungere quello stato di purificazione a cui, forse da troppo tempo, sembra aspirare. Ma se da un lato il progetto di Haycock è interessante per il concept che lo regge la sua grandezza, il suo valore, lo si comprende solo nel momento in cui ci si rende conto che è proprio nel video che quella rivoluzione nell’approccio creativo di Florence e del suo gruppo ha luogo.
Soffermarsi sul puro racconto, in realtà, è la scelta più sbagliata da compiere in questo caso. La storyline, in effetti, non ci dice più di quello che già sappiamo e che abbiamo già riassunto poco fa in una manciata di righe. Florence, in ogni sequenza, finisce per scontrarsi con emanazioni delle sue paure, dei suoi dubbi, delle sue scelte sbagliate. A reggere tutto il racconto, i motivi ricorrenti dell’amore andato in mille pezzi, dell’approccio sbagliato alle relazioni e la continua ricerca di purificazione, di tranquillità, di quella comunione con la vita che da troppo tempo la performer sembra anelare. Il vero senso profondo di un progetto come The Odyssey sta proprio nella sua diegesi, nella modalità con cui sceglie di organizzare il racconto e, ancor meglio, nel modo in cui porta in scena il carico tematico e simbolico di ogni singolo brano che compone il mediometraggio di Haycock.
The Odyssey, in realtà, non fa altro che precisare ed amplificare l’approccio già solidamente presente nel disco. Ciò che salta all’occhio è, in primo luogo e soprattutto, un’atmosfera straordinariamente concreta che impregna tutto il girato. Un po’ come a voler rimarcare quell’idea che parte dalla volontà di eliminare qualsiasi tipo di filtro tra chi canta, la sua interiorità ed il mondo circostante che già informa il disco.
La protagonista del progetto multimediale è Florence Welch stessa. È lei che si muove nei vari spazi, negli ambienti (dalla campagna inglese ad una camera di motel, da quello che sembra essere un sotterraneo, ad un cimitero, giusto per citarne alcuni), in cui prendono corpo le sue negatività, le sue paure, i suoi demoni interiori, è lei stessa che, quasi superfluo dirlo ora, letteralmente li affronta.
Perché se è vero che, rispetto al passato, i testi dell’album connesso a The Odyssey lasciano in secondo piano, quasi solo suggerito, il loro organizzarsi attorno a quel maltrattamento del corpo e della mente, a quella continua ricerca di purificazione e pace a cui prima abbiamo accennato, ciò accade solo perché il peso di concretizzare queste istanze è del tutto affidato al mezzo filmico. Nel progetto di Haycock è il corpo di Florence ad essere sballottato, maltrattato, infastidito da soggetti maschili in momenti che quasi suggeriscono delle orge, è il suo corpo che viene coinvolto in un incidente automobilistico, è il suo corpo che si piega al sesso facile pur di far tacere le voci che la tormentano. Torna dunque questo desiderio di distruggere le barriere che fino ad un momento fa aiutavano la Welch a processare il reale che la circondava, ma soprattutto, emerge la volontà (affine a questo desiderio di purificazione) di rivedere da zero il rapporto tra lei e il suo pubblico.
Stavolta è chiaro che chi canta non solo cerca un contatto ancora più profondo con chi ascolta ma quasi impone al suo pubblico di attraversare con lei questo purgatorio, affinché possa aiutarla a processare gli input che le si presentano, affinché possa aiutarla a sostenere il peso emotivo di ciò che le accade nel corso della sua Odissea. L’elemento che più colpisce in questo senso è costituito da alcuni interludes, da alcune parentesi, quasi degli intervalli nella narrazione canonica, che vedono la Welch cantare il brano di turno a cappella (dunque privo di tutta quella sovrastruttura strumentale quasi protettiva che lo caratterizza), continuandosi a muovere nello spazio ma non perdendo mai o quasi il contatto emotivo con chi guarda attraverso il più classico e profondo degli sguardi in macchina: “Soffri con me, aiutami”, sembra dirci la cantante con quello sguardo” e a noi non resta altro che rispondere alla chiamata.
Ad un livello più profondo e interessante in questo senso, la ricostruzione di un rapporto libero da protezioni con il pubblico passa però anche e soprattutto attraverso l’immagine, attraverso ciò che si vede, di ciò che lo spettatore vede, nel corso dello svilupparsi della storyline.
Se è vero che The Odyssey (e il disco che ne traccia le premesse con lui) è il luogo in cui Florence Wech decide di rinunciare a tutte le sovrastrutture protettive che l’hanno contraddistinta fino a questo momento e dunque anche a quegli elementi di significato provenienti da immaginari irreali quali il gotico e il fantasy ciò non significa che il progetto visivo di Haycock non si sostanzi comunque su un immaginario che puntelli le tematiche del disco ed è proprio qui che le carte vengono sparigliate in maniera più profonda.
Perché l’immaginario che viene scomodato è proprio quello cinematografico, quel monstrum formato da spunti, immagini, dettagli, approcci alla scena provenienti da più di cento anni di storia e nutrito dagli apporti di decine di cineasti.
Il visivo di The Odyssey è strutturato dunque attorno ad un’attualizzazione critica e funzionale di input e prelievi provenienti dai generi e dagli autori più svariati. La resa in scena del corpo femminile e delle sue interazioni con il suo omologo maschile sembra un’edulcorazione dello stile di Lars Von Trier, le inquietanti danze, le atmosfere che rimandano a oscuri riti pagani che si respirano nel segmento dedicato ad How Big, How Blue, How Beautiful rimandano a certe derive del nuovo gotico contemporaneo (Dave Eggers e Ben Wheatley su tutti) e alla tradizione di The Wicker Man. E ancora, sulla stessa linea, ecco che la sequenza dedicata a Delilah è girata in un motel californiano in cui si incrociano suggestioni provenienti da Lynch e Refn, ecco che schegge provenienti dalla tradizione classica del musical vengono prelevate, rielaborate e distorte per informare le coreografie che accompagnano ogni sequenza.
È proprio qui che prende corpo con ancor più forza quella ricerca di vicinanza tra cantante e spettatore/ascoltatore che sembra essere l’obiettivo ultimo di questo progetto multimediale.
Perché questa ricerca passa attraverso (e si ferma) al cinema, al mezzo di comunicazione universale più recente per eccellenza e, soprattutto, attraverso il cinema The Odyssey trasporta l’ascoltatore e Florence Welch nello stesso spazio mentale e simbolico da cui, tuttavia, rispetto a ciò che accadeva in passato, con la comunicazione soltanto testuale e sonora, è impossibile la fuga, il fraintendimento, la ricerca di distanza a tutti i costi. Perché l’immagine rende tutto più concreto, perché gli spunti, i simboli, per quanto rielaborati, sono riconoscibili, perché in proporzione esistono molte più persone che hanno visto un film della Hammer o una pellicola di Refn rispetto a quelli che hanno letto Poe, perché tutto ciò che si vede è più o meno evidente, perché, in ultimo, noi e Florence vediamo le stesse e identiche cose.
Lei non scappa più e, soprattutto, non fa più scappare neanche noi, non lo permette più.
The Odyssey rappresenta dunque perfettamente ciò che il cinema e la multimedialità possono fare in termini di percezione, rielaborazione del trauma, ricezione del pubblico, quando tali mezzi sono liberi di esprimersi in tutto il loro potenziale.
Alessio Baronci
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