Five Shades Of Mad Hatter – Evoluzione Di Una Follia
“[…] O Lear, [Lear] Lear!
Beat at this gate that let thy folly in
And thy dear judgement out!”
(King Lear, a. I s. IV)
Shakespeare è solo uno dei tanti esempi di personalità che, nel corso dei secoli di letteratura, medicina e arti in generale, sono rimasti affascinati dalla follia tanto da renderla la protagonista assoluta delle loro produzioni.
La follia si è accompagnata e ha reso celebri molti personaggi, divenendo la caratteristica principale di queste creature che agiscono al limite dei comportamenti socialmente accettabili. Che si tratti di follia autentica o simulata, come l’Amleto shakespeariano esemplifica, gli stati allucinatori della ragione umana hanno da sempre catturato l’attenzione del pubblico di ogni epoca. Fin dall’inizio della sua carriera, la follia, alienando l’essere umano che ne è affetto, passa lentamente dall’essere parte integrante dei rituali sacri delle religioni antiche, e perciò socialmente accettabile, all’essere fonte di disprezzo e di allontanamento dai cosiddetti normali, arrivando alla contemporanea definizione di malattia mentale da diagnosticare e curare.Ma come si articola la follia? Quali fasi attraversa? Molto spesso la fase acuta viene associata ad un eccesso che sconvolge la mente, di qualsiasi tipo esso sia: per Lear e Amleto è un eccesso di dolore, spesso un eccesso di paura o anche d’amore. Ma in qualunque modo si manifesti, questo eccesso porta sempre ad una mancanza di lucidità o, in altre parole, a perdere la testa. Sembra quasi un ossimoro: un eccesso che determina una mancanza. Questa è la dinamica che si aggira dietro molte storie di follia. Ma questo eccesso, a dispetto di quanto si pensi normalmente, non è sempre portatore di perdite permanenti di ragione: uno dei primi esempi letterari che trattano questo tema c’è in uno dei libri per bambini più amati di sempre, da cui sono stati tratti numerosi film: Alice nel Paese delle Meraviglie. Carroll giustifica e fa derivare tutto il viaggio che la piccola Alice intraprende tra queste creature folli e sui generis da un colpo di calore, un’insolazione, un eccesso, avvenuto durante una gita in barca con le sorelle e l’autore. Per la prima volta un eccesso della mente provocato dall’esterno non influenza negativamente chi lo subisce, ma permette lo sviluppo della creatività del soggetto fino a creare un nuovo mondo, seppur immaginario e al limite della follia. Ma come si manifesta questo briciolo di follia, quindi di mancanza di senno dovuto ad un eccesso di calore, all’interno della narrazione carrolliana?
Ogni figura che Alice incontra porta con se i segni della mancanza, prima fra tutte la Regina di Cuori, la cui mania di tagliare teste è proverbiale e particolarmente adatta al discorso dell’autore (nel lungometraggio animato della Disney resterà la frase “se io perdo le staffe tu perdi la testa!”). A catturare l’attenzione del pubblico dei secoli successivi non è stata però tanto la Regina, quanto il personaggio principe della scena del tè più famosa della storia: il Cappellaio, che nasce con questo appellativo per diventare poi nel corso delle riletture il Cappellaio Matto.
Ogni figura è costruita da Carroll in modo che rappresenti non solo una categoria patologica ben precisa e legata alla stranezza intrinseca del personaggio, ma allo stesso tempo condivida alcuni tratti caratteriali con la categoria d’appartenenza. Costruisce così il suo Cappellaio secondo la similitudine molto popolare nella sua epoca: l’essere “matto come un cappellaio”. Ma da dove deriva la pazzia dei cappellai in generale e del Cappellaio Matto in particolare? Nell’Inghilterra di Carroll i cappellai erano soggetti ad una perdita di lucidità, e quindi alla follia, a causa dell’eccessiva assunzione tramite respiro delle sostanze utili alla lavorazione dei materiali per la costruzione dei cappelli, portando come conseguenze irritabilità, sbalzi e repentini cambi d’umore nonché a lesioni fisiche, come unghie rovinate dal contatto con gli acidi e pallore del volto. Avendo provvisto alle illustrazioni solo in un secondo momento, Carroll non ha ritenuto necessario creare un personaggio immediatamente riconoscibile con caratteristiche fisiche ben precise, ma ha usato solo quelle psicologiche, lasciando che l’identificazione del personaggio avvenisse tramite la conoscenza da parte del pubblico delle suddette caratteristiche della categoria di appartenenza, caratterizzando al massimo il cappellaio con l’aggiunta in testa al personaggio del famigerato cilindro con la targhetta. La pazzia del Cappellaio deriva quindi da un eccesso di assunzione di sostanze tossiche che provocano la perdita della lucidità e della ragione. Il capitolo sulla strana ora del tè ha garantito ai personaggi che vi sono coinvolti di sopravvivere nella mente del pubblico e di accompagnare la crescita di molte generazioni, facendo entrare di fatto Alice nel Paese delle Meraviglie tra i classici della letteratura inglese e mondiale.
Ma siamo ancora all’inizio dello sviluppo di questo personaggio e della sua caratterizzazione. In questa prima fase il lettore si trova ancora in una favola per bambini, non c’è un approccio serio alla psicopatologia, come è giusto che sia se teniamo in conto il pubblico a cui è rivolto: i bambini. La follia è vista più come un eccesso di stranezza che non una vera e propria patologia, nonostante ne mantenga tutte le caratteristiche. Il Cappellaio attraversa così il tempo, divenendo riconoscibile come il piccolo omino col grande cilindro e in età un po’ avanzata. O almeno è proprio da queste illustrazioni che Walt Disney nel 1951 trae il personaggio del suo lungometraggio Alice nel Paese delle Meraviglie. Mantenendo la caratterizzazione originale, la prima scena in cui ci viene presentato il Cappellaio è la ben nota scena del tè, dove lui e i suoi compagni storici sono circondati da allegre nuvolette di vapore emanate dalle teiere, mentre si preparano alla merenda.
Il personaggio viene creato così come Carroll l’aveva immaginato, con le caratteristiche originali delle illustrazioni letterarie. Il personaggio però non sembra appartenere effettivamente ad un mondo altro dal nostro, ma esiste solo nello stato di eccesso della mente di Alice, diventando così un personaggio in eccesso che deriva da quello stesso eccesso della mente pensante. Tutto accade e viene creato in quello che è più volte rimarcato come il “sogno di Alice”, un sogno che crea meraviglie, folli ma pur sempre meraviglie, ma che al risveglio perde presto presa sulla mente della protagonista lasciando segni di breve durata. Siamo ancora in una fase non matura della riflessione sulla follia, tutto il mondo delle Meraviglie, Cappellaio compreso, resta ancora al livello del sogno creato da stanchezza, sole e calore.
È solo nel 2010 che ritorna l’attenzione sul mondo creato da Carroll: la Disney reinventa i suoi classici affidando a Tim Burton la regia del nuovo Alice in Wonderland. Nessuno più di lui era ed è adatto per realizzare una rilettura contemporanea di questo classico e dei suoi personaggi, riuscendo a mescolare il suo stile personale alle caratteristiche proprie del romanzo. L’ambientazione si sposta a molti anni dopo il primo viaggio del film d’animazione in un mondo ormai saturo di regole societarie e convenzioni, un mondo dove non c’è posto per il diverso. Diversità che invece è la caratteristica fondamentale di Sottomondo, che ogni abitante declina a modo suo e il cui nome è tutto un programma: la Moltezza. Nome che indica una pienezza, il possedere un qualcosa in più che rende unici, in altre parole un eccesso di qualcosa che non deve essere nascosto ma che rappresenta il proprio io interiore e quello che ci rende unici.
Quale personaggio era più adatto ad essere il portavoce di questa filosofia? Proprio il Cappellaio, che perde l’identità che aveva assunto nel film precedente per assumere un nuovo ruolo e un nuovo look.
La prima immagine che lo riguarda è di nuovo la scena del tè, ma qualcosa è diverso. Non ci sono più allegre nuvolette di vapore né canzoncine o colori sgargianti; il panorama a tinte fosche ci introduce in uno spiazzo dove da subito notiamo che c’è qualcosa che manca. Il Cappellaio, a capotavola, è chino sul tavolo e la prima immagine che si presenta allo spettatore, a caratterizzarne meglio il mestiere, è l’enorme cilindro con le mani massacrate da tagli e sostanze corrosive, finché non solleva il volto: pelle diafana, grandi occhi contornati da profonde occhiaie, che all’occorrenza mutano colore, e una rapidità nel parlare che procede all’infinito per libere associazioni. L’immagine è molto più precisa delle precedenti, rispecchia pienamente l’idea originaria che anche Carroll aveva usato per modellare il suo personaggio: viso e mani rovinate dal lavoro e dagli acidi, sbalzi d’umore che ne modificano la fisionomia, ossessione per gli indovinelli (“Tu sai perché un corvo assomiglia ad una scrivania?”) e per le parole che iniziano con la lettera M (tra cui Madness in inglese o Matto in italiano); una caratterizzazione molto più precisa non solo verso le scelte dell’autore, ma anche verso la realtà di questa categoria di artigiani. Ma al regista replicare la realtà o l’opera di qualcun altro non basta; reinterpreta così la follia del personaggio, e più in generale di tutti i personaggi, aggiungendo l’eccesso della pazzia in tutti e rendendola una caratteristica positiva e non più negativa o da eliminare. La società vittoriana in cui vive la protagonista esclude coloro che non si omologano al vivere comune, partecipando in maniera coreutica alla soppressione del diverso; il Cappellaio rappresenta la presa di consapevolezza della protagonista che non si può essere diversi solo per piacere agli altri, ma se si possiede un talento proprio, una propria Moltezza, lo si deve coltivare a prescindere del pensare comune. A completare la figura del Cappellaio scopriamo man mano che il film procede ad elencare gli attrezzi del suo mestiere: rocchetti di filo attaccati ad una cinta come i soldati tengono le cartucce di scorta dei fucili, aghi e forbicine che all’occorrenza possono servire da armi per risolvere situazioni critiche: in altre parole, si passa da un tipo di eccesso infantile o fanciullesco che aveva caratterizzato i film precedenti ad un tipo di eccesso mentale che si trasforma in militanza attiva per ristabilire un ordine sconvolto; si passa cioè da un tipo di follia per bambini ad una per adulti.
Gli eccessi del Cappellaio si hanno infatti nei momenti di rabbia acuta, spesso e volentieri indirizzata verso la Regina Rossa, oppure nei momenti di ricordo dei dolori passati o della concentrazione per la battaglia. Anche qui l’eccesso diventa mancanza di quella che comunemente chiamiamo ragione, ma se lo guardiamo dal punto di vista del nostro mondo; rovesciando il mondo e passando a Sottomondo anche il concetto di eccesso si modifica, diventando un elemento positivo.
Nello stesso periodo in cui Alice in Wonderland usciva nelle sale, due produttori vicini ai personaggi della Disney sviluppano un altro tipo di rilettura delle favole, dando vita alla serie tv, arrivata oggi alla sesta stagione, Once Upon a Time (arrivata in Italia col titolo di C’era una volta). Progetto della serie è quello di riunire tutti i personaggi dei film Disney e non, rielaborandoli e adattandoli ad una versione nuova e contemporanea. Benché uno spin-off chiamato C’era una volta nel Paese delle Meraviglie sia stato prodotto solo successivamente e presto abbandonato, tra prima e seconda stagione ricorrono alcuni dei personaggi cardine di Carroll, tra cui spicca la nuova caratterizzazione del Cappellaio. Se dei precedenti era caratteristica propria la danza che si crea tra eccesso e difetto, con questa nuova versione si porta a compimento quello che nel film di Tim Burton ancora non era del tutto evidente: il capovolgimento.
La serie si basa sull’alternanza tra sviluppo della storia contemporanea e flashback del mondo precedente da cui i personaggi delle fiabe sono arrivati tramite sortilegio: la Foresta Incantata, l’Isola che non c’è, la Terra di Oz, la Terra delle Storie Mai Raccontate e il Paese delle Meraviglie. Si passa da un mondo all’altro solo tramite portali, tutti raccolti all’interno del cilindro del Cappellaio. Solo lui è in grado di far funzionare il cilindro ed è proprio durante uno dei viaggi nel Paese delle Meraviglie che viene tradito e lasciato lì ad affrontare le conseguenze dell’intrusione, che gli causerà la perdita della testa e l’ossessione nel ricreare un altro cilindro che lo riporti dalla figlia.
Nel presente c’è un totale ribaltamento di consapevolezza: dove nel mondo magico la perdita della testa e della vita familiare gli producono la perdita della ragione, nel mondo contemporaneo è uno dei pochi che è realmente consapevole delle loro vere identità, conservando il ricordo di tutti i mondi che ha visitato e delle vite che ha vissuto. Una mente affollata da un eccesso di informazioni che lo faranno credere pazzo e con l’ossessione per i cilindri, che deve assolutamente “far funzionare” per tornare alla sua vera vita. L’idea dell’affollamento della mente era già apparso nel film di Burton (“Ho paura Alice. La mia testa è così terribilmente affollata”), ma resta non più di un accenno, mentre qui quella frase assume un carattere nuovo e ben definito. Ancora una volta si fa un passo avanti verso una consapevolezza più adulta della materia trattata.
Sei anni dopo c’è un nuovo tentativo di rinnovare figure e tematiche di Alice nel Paese delle Meraviglie: riprendendo le caratterizzazioni burtoniane sempre alla Disney si realizza Alice attraverso lo specchio. Sebbene visivamente si possa quasi parlare di una regressione dei personaggi e della scrittura (alcuni attori non sono al top o sono eccessivamente carichi di trucco da ricordare più delle maschere che degli attori), tematicamente si è tentato di alzare il livello: accettato che dalla propria Moltezza non si può scappare se si vuole essere felici, anzi è necessario assecondare le proprie inclinazioni anche a rischio di finire in manicomio, se un qualsiasi evento fa “perdere” la Moltezza si rischiano cause estreme, nel caso specifico la morte. Questa mancanza di se e del proprio eccesso (a volte anche creativo) provoca l’avvilimento del personaggio che non vive che di quello: mentre nel finale Alice è pronta a rinunciare a se stessa per mantenere viva la propria famiglia, vivendo anche come tutti la vorrebbero, al Cappellaio questa scelta non viene data; senza famiglia non gli resta che spegnersi, in quanto la Moltezza originaria del personaggio era stata proprio nutrita dal rifiuto da parte del padre prima e della presunta perdita della famiglia dopo. Dove nel film di Burton, come assunto dalla sua poetica, la famiglia è l’elemento che soffoca l’inclinazione personale e la creatività, qui le cose sono ribaltate e la famiglia resta uno dei luoghi prediletti per la crescita dell’individuo. La costruzione visiva del personaggio resta la medesima del precedente film, nonostante l’eccesso di trucco spesso disturbi la visione e renda il personaggio più macchiettistico, cosa che nel film del 2010 non succedeva.
La prima immagine che abbiamo del Cappellaio è la sua casa, rigorosamente a forma di cilindro, oggetto che altrimenti sarà quasi del tutto assente nel corso del film. Il trucco bianco del viso che apre la porta è portato all’estremo, quasi a voler mascherare un disagio dell’interprete, chiaramente non più aderente alla parte come lo era stato anni prima. Permane l’idea delle occhiaie sintomo del cambiamento d’umore, anche se chi sta dietro la caratterizzazione dei personaggi ignora quello che stava alla base della creazione dell’apparenza del personaggio: il grado di realismo che lo studio dei danni fisici e psichici, che questa professione portava a chi la praticava, come base della creazione del personaggio. La riproduzione del look del precedente film è meccanica, senza domandarsi da dove sia stata tratta, cosa dimostrata dal fatto che mentre il Cappellaio appare come sopra descritto, la sua famiglia invece, padre compreso, sembra del tutto normale, creando una discrepanza notevole. Si passa quindi ad un’evoluzione del contenuto senza però un aggiornamento o una comprensione profonda del lavoro di chi ha preceduto questo film, cosa che crea un abbassamento del livello di apprezzamento del pubblico.
Nonostante ciò, quello che, in conclusione, salta all’occhio durante la visione di tutti questi film è il legame indissolubile che c’è tra gli eccessi della follia e l’idea che per essere pazzi si debba “aver perso qualche rotella, la testa o la zucca”. Eccesso e difetto sono per natura due contrari, ma quando si tratta di follia in generale, e di Cappellaio Matto in particolare, che lo si rappresenti graficamente, come cartone animato, pallido combattente o padre dall’abbigliamento eccentrico, sarà sempre soggetto all’alternanza di queste due forze. Che l’eccesso venga dall’esterno o dall’interno, questo personaggio come chiunque non può sottrarsi a delle influenze, che finché gestibili permettono di passare inosservati, ma se mal gestiti possono provocare serie conseguenze ma anche lampi di genialità mai vista. Non per niente, già dall’antica Grecia lo stesso poeta subiva un eccesso di personalità durante la visita delle Muse e la composizione dell’opera, facendo nascere così l’idea che il genio artistico spesso sia al limite della follia. E infatti il Cappellaio, in ogni sua rappresentazione, è sempre un artista nel suo mestiere. Ma la cosa ancora più interessante è che tutte queste produzioni sono della Disney o ruotano attorno ad essa, facendo nascere così l’dea che ci siano ancora delle cose da dire o un’evoluzione da far fare a queste creature, portate dall’intrattenimento per bambini alla riflessione per adulti e magari oltre. Chissà se ci aspetterà un nuovo percorso da seguire nel labirinto della mente?
Sabrina Podda