La Fabbrica Di Cioccolato – Tim Burton E La Critica Alla Famiglia Contemporanea
A dispetto di chi reputa i suoi film prodotti di una mente malata e distorta e soprattutto di chi ritiene Tim Burton capace solo di narrare storie surreali e per bambini, ogni volta che si guarda un film dell’ideatore di Nightmare Before Christmas (per citare uno dei suoi film più famosi) se lo si osserva con attenzione e non ci si sofferma alla superficie fantastica, si possono trovare realtà che formano la spina dorsale della cinematografia burtoniana.
Uno dei suoi film più criticati e controversi, soprattutto per il rapporto che instaura con il suo predecessore diventato un film di culto, è La fabbrica di cioccolato del 2005, anno in cui ancora non si era manifestata la profonda crisi che sta tuttora attraversando il regista e dalla quale si spera che riemerga col suo prossimo film, La casa per bambini speciali di Miss Peregrine. Durante tutta la sua carriera, Burton ha trattato il medesimo tema adattandolo ogni volta alla circostanza della trama: il viaggio dell’emarginato che si allontana dal suo luogo d’origine per cercare il proprio posto nel mondo e una società che lo accetti così come è. Nonostante questo non sia il tema centrale della Fabbrica di cioccolato, ne è però sicuramente il motore, ragione per cui è opportuno spenderci qualche parola.
Il personaggio incompreso, dalla sua famiglia o dalla società in cui vive, è il protagonista ricorrente della filmografia burtoniana, sicuramente manifestando un senso di riscatto e di rivincita di cui lo stesso regista è alla ricerca anche per se stesso: non è leggenda, ma è lui stesso ad affermarlo, seppure a volte molto implicitamente, nella sua autobiografia. Fin dall’inizio, non sempre i suoi protagonisti possono restare nei luoghi che sono loro più congeniali, solo alcuni fortunati non sono costretti al ritorno alla solitudine. Se Vincent Malloy (Vincent, 1982), Edward (Edward Scissorhands, 1990) o Sweeney Todd, sempre per citarne solo alcuni, sono impossibilitati a creare un compromesso con la “normalità” che li respinge e relega a reietti, più fortunati sono Jack Skellington (Nightmare BeforeChristmas, 1993), Edward Bloom (Big Fish, 2003) e anche il vero protagonista de La fabbrica di cioccolato, che non è Charlie (Freddie Highmore), bensì Willy Wonka (Johnny Depp). A differenza del film precedente, dove la parte biografica del cioccolatiere è inesistente perché invenzione burtoniana, Willy Wonka ci viene presentato, tramite flashback, nell’infanzia e poi nel corso della sua carriera dolciaria come un personaggio respinto dal proprio padre (dentista e profondamente contrario ad ogni tipo di dolci che definisce “congegni da carie”, interpretato da Christopher Lee) e da lui costretto a scappare di casa per affermare la propria indipendenza e seguire la sua vocazione di cioccolatiere. Riuscirà alla fine a riappacificarsi con la figura paterna, ragion per cui sarà anche in grado di dare una possibilità a qual mondo familiare in cui Charlie lo inserisce e che prima aveva respinto con forza.
Mondo familiare: un mondo che può essere oppressivo ma allo stesso tempo motivazionale verso il bambino, visto che di sei bambini si tratta (i cinque vincitori dei biglietti d’oro e del piccolo Wonka), totalmente positivo e tendente a preservare l’innocenza e la speranza del più giovane di casa, oppure talmente accomodante da essere molto più pericoloso. Questa è la critica che Burton fa alle famiglie contemporanee, inglesi e di tutto il mondo: eccessiva propensione ad accontentare i propri figli, nociva oltre ogni previsione. Ogni famiglia appartiene ad un contesto diverso e per questo rappresenta delle qualità proprie dell’area geografica a cui ognuno appartiene, ma che allo stesso tempo, a seguito del dilagare dei costumi in ogni popolazione, possono anche essere lo stereotipo di abitudini educazionali che sono uscite dal loro contesto prettamente geografico.
Il primo bambino a vincere il biglietto d’oro, pass per l’accesso illimitato per lui e per un familiare alla fabbrica di Wonka, è Augustus Gloop, tedesco. La prima immagine che abbiamo di lui è tratta dall’intervista a cui viene sottoposto come primo vincitore della “corsa all’oro” dei biglietti: un bambino dalle guance rosse che azzanna avidamente una tavoletta di cioccolato, mentre sullo sfondo il padre è intento a insaccare salsicce. Quello che appare è l’immagine che l’Europa e il mondo hanno degli abitanti della Germania: baite, wurstel, salsicce e crauti. Lo specchio di Augustus è sua madre, che a suo modo manifesta la stessa avidità del figlio. Sarà infatti proprio per l’eccessiva propensione all’arraffare il più possibile della madre che spingerà il bambino a rimpinzarsi nel giardino commestibile di Willy Wonka e che lo porterà poi a cadere nel fiume di cioccolato e ad essere eliminato dalla competizione per la sorpresa speciale alla fine del tour. Avidità che passa di generazione in generazione, avidità tedesca di voler possedere tutto in grande quantità, anche se questo porta alla rovina finale (come la stessa storia nazionale ha mostrato nell’ultimo secolo). La seconda bambina a vincere il biglietto è Veruca Salt, inglese. Viziata e abituata ad ottenere quello che vuole applicandosi il meno possibile, è al massimo costretta ad alzare la voce e pretendere quello che vuole da un padre disposto ad accontentarla in tutto e da una madre poco presente, come è sempre stato nelle famiglie nobili inglesi, dove i bambini crescono nell’agio e nell’idea che tutto ciò che è diverso da se è da evitare o snobbare senza pietà, così come le cose vecchie davanti alle novità più gettonate. Sarà questo che porterà la bambina a pretendere, non appena aver stretto tra le mani il biglietto d’oro tanto agognato, un altro pony ai genitori pronti ad accontentarla. La critica di Burton colpisce le famiglie altoborghesi e nobili dell’Inghilterra, abituate storicamente a pretendere quello che vogliono per diritto di nascita e non per merito personale. Pretese che discendono dalla storia della patria insita nel DNA inglese, ma che in questo caso sono anche supportate da genitori disposti e accomodanti verso questo tipo di atteggiamento. Sarà proprio il non poter ottenere quello che vuole (uno scoiattolo che sguscia le noci senza romperle e che sa distinguere quelle buone da quelle guaste) che la porterà ad essere eliminata dalla corsa alla sorpresa finale.
Gli altri due protagonisti sono entrambi americani e incarnano due aspetti diversi ma allo stesso tempo fondanti della cultura americana, o almeno di come l’americanità si vende sul mercato mondiale. In ogni film sulle adolescenti americane, il sogno di ogni bambina e ragazza è diventare una cheerleader, un’atleta che competa nelle gare e che porti a casa premi e popolarità. Violetta Bauregarde (AnnaSophia Robb) rientra in questo spirito americano per l’individualismo e per il raggiungimento ad ogni costo del primato in ogni disciplina possibile, dai premi di cheerleading ai primati per chi mastica più a lungo la stessa gomma o a chi per prima assaggia il prototipo della “gomma da pranzo”. Proprio questa sua volontà di primeggiare ad ogni costo, volontà che le viene inculcata dalla madre che le ripete in continuazione di “tenere gli occhi sul premio” (era ella stessa una stella delle medesime attività che ha fatto ereditare alla figlia), la porterà a non ascoltare i consigli di tutti i presenti e a subire le conseguenze dell’aver testato un prototipo difettoso (proprio la gomma da pranzo di prima, che la farà diventare blu e gonfia come i mirtilli di cui è fatto il dessert). Mike Tivù è affetto da un senso di individualismo speculare ma allo stesso tempo opposto a quello di Violetta. La voglia di primeggiare e di individualismo lo sposta però non nella parte sociale, come invece risulta per Violetta che vuole essere prima su tutti, ma lo proietta verso il voler primeggiare in solitudine, dilettandosi con programmi televisivi e giochi di guerra che alimentano una prepotenza di carattere già predominante. A differenza di Violetta, Mike non segue le orme del genitore dello stesso genere, nel qual caso il padre, il quale invece è dominato totalmente dalla volontà del figlio, avendo una natura mite, remissiva e tendente al compromesso. Per questa sua natura quasi nerd fatta di tv e videogiochi sarà impossibile impedirgli di utilizzare l’invenzione che teletrasporta tavolette di cioccolato gigantesche, che vengono ridotte a dimensioni normali dal trasferimento molecolare, effetto che comporta squilibri di dimensioni al corpo del bambino al momento di rimateliarizzarsi nei canali televisivi. In questi due casi le famiglie risultano eccessivamente accomodanti e nocive allo sviluppo sano delle personalità dei figli, che per essere quello che vogliono raggiungono anche un certo tasso di aggressività. Le parti di approfondimento di queste dinamiche sono affidate ai piccoli assistenti di Wonka, gli Umpa Lumpa, esseri provenienti da una regione sconosciuta e, per quanto ne sappiamo noi e il padre di Mike Tivù (insegnante di geografia alle superiori), inesistente si qualsiasi mappa. Non è un caso che siano proprio loro gli artefici della parte critica del film: sono in apparenza muti e si esprimono unicamente a gesti, ma nel momento adatto si esibiscono in vere e proprie performance di canto e ballo, adattando ogni volta ritmo e parole delle canzoni al bambino in questione (fatto strano che solleva anche le obiezioni della stessa Violetta che vengono liquidate non in modo molto convincente da Wonka), ma proprio questa loro estraneità geografica e di linguaggio li rende gli unici “puri ed estranei” alle contingenze e agli usi degli uomini comuni, cosa che li rende quindi gli unici veramente disinteressati e in grado di poter criticare i comportamenti sbagliati degli altri.
Charlie Bucket è il coprotagonista del film e vive una situazione opposta a quelle sopra descritte. Per cominciare, non è specificato né in che città, tantomeno in che stato ci troviamo, sappiamo solo che abita nello stesso agglomerato urbano in cui è costruita la grande e misteriosa fabbrica. A differenza degli altri con i loro bisogni più o meno materiali, il suo desiderio più grande è di poter visitare la fabbrica, di cui possiede un modellino in scala fatto da lui con i tappi difettosi dei tubetti di dentifricio prodotti dalla fabbrica in cui lavora il padre. La sua famiglia vive unita in una casa malandata, ma nonostante ciò si trasmettono valori e incoraggiamenti l’un l’altro, permettendo al bambino di non perdere la speranza che la sua vita possa cambiare, magari trovando il famoso ultimo biglietto d’oro. La scena si apre su una famiglia positiva, che trova il suo sostegno all’interno della stessa, senza necessità di navigare nel futile e nel materiale, come le famiglie degli altri vincitori, ma puntando sul sentimento e sul sacrificio personale. Che si parta con questo presupposto crea un effetto ancora più straniante nello spettatore quando si presentano gli altri bambini e i loro habitat familiari, perché è molto più facile provare empatia per Charlie che per gli altri.
Nel corso del film approfondiamo anche il rapporto del piccolo Wonka col padre, figura autoritaria che, coi suoi comportamenti e ultimatum (come gettare nel camino acceso i dolci di Halloween del figlio per impedirgli di rovinarsi i denti), riesce però a far emergere l’interiorità artistica e a volte eccentrica del figlio, dimostrando che spesso un rapporto controverso può schiacciare, come succede nel maggiore dei casi, ma può essere allo stesso tempo abbastanza positivo da poter ipotizzare una riconciliazione finale tra padre e figlio. Sarà infatti durante la visita che si capirà come il padre abbia seguito i successi del figlio durante i suoi anni di carriera, ammettendo implicitamente di aver sbagliato e di essere entrambi pronti ad una reciproca comprensione. I momenti di approfondimento biografico di Wonka sono affidati a degli espliciti flashback, che iniziano spesso sul volto di Depp che fissa il vuoto e con una dissolvenza si passa ad un diverso momento del passato. Per evitare questa stranezza e rendere abbastanza credibili questi passaggi, Burton li rende espliciti in sceneggiatura, tanto che, dopo un momento di ennesima stasi dell’azione, mentre tutti i presenti sono intenti a fissarlo, Wonka/Depp esclama: “Scusate, stavo avendo un flashback” e alla domanda se ultimamente questo succeda spesso risponde “Sì, direi proprio di sì… oggi…”. A differenza dei momenti in cui durante le interviste i bambini raccontano di come hanno trovato i biglietti d’oro, anch’essi flashback, ma che nascono semplicemente come trasposizione visiva dei racconti degli intervistati, i momenti al passato di Wonka sono del tutto estranei alla narrazione e anzi la bloccano, aggiungendo significato per lo spettatore, ma non per i personaggi interni, come invece le interviste fanno. Tutta questa costruzione è supportata ovviamente dalla componente prettamente spettacolare e fantastica che popola i film di Burton, per cui troviamo in un edificio grande, ma non certo così tanto, stanze che ospitano cascate di cioccolato fuso con relativo fiume, circondato da una natura lussureggiante e totalmente commestibile, caratterizzata da brillanti colori a pastello, un richiamo abbastanza evidente alla sua filmografia d’animazione, in particolare ai suoi film in stop motion (Nightmare Before Christmas e La Sposa Cadavere).
Un’impalcatura tecnica e visiva creata su misura per rendere un film con un bagaglio di indagine critica agevole per ogni fascia d’età, in modo che i più piccoli possano restare abbagliati dalle meraviglie ma allo stesso tempo recepiscano implicitamente il messaggio che Burton vuole trasmettere (“attenti ai comportamenti sbagliati”) e che permetta allo stesso tempo agli adulti di riflettere sul loro modo di rapportarsi ai figli e di educarli e magari di correggere il tiro ove si rispecchiassero troppo nelle critiche. L’impalcatura serve anche a creare un certo legame tra gli spettatori e i due protagonisti, in modo che il pubblico possa seguirne l’evoluzione, capirli e apprezzarli, attraverso la scoperta di connessioni e rimandi tra Willy Wonka e Charlie, simili e discordi allo stesso tempo. Tutti e due i protagonisti scoprono molto presto la passione per i dolci, verso cui mostrano una spiccata creatività, anche se provengono da due background culturali diversi; entrambi manifestano quell’innocenza e quel distacco dalle contingenze che gli permettono di sviluppare una coscienza creativa sana, nonostante i diversi approcci allo sviluppo creativo mediato dalle influenze esterne (familiari in primis); entrambi vivono in città anonime, non precisate sulla carta geografica, quasi a voler creare un senso di appartenenza ad ogni società e in cui ogni popolazione può identificarsi. Ogni popolo ha famiglie buone e cattive, ognuna ha le sue sfumature comuni con cui si può creare empatia, quasi a voler incarnare quelle qualità generali e intrinseche in tutti i contesti, o che almeno dovrebbero esserlo. Quasi come se Burton ci stesse mostrando i lati buoni e quelli cattivi, come a voler dire ad alcune categorie specifiche di alcuni stati “questo è quello che si vede dall’esterno, cercate di migliorare, nonostante tutte le loro difficoltà siate più come i Bucket e meno come i Salt (qualsiasi dei quattro nomi avrebbe la stessa funzione), perché non pensate che questi difetti siano solo geograficamente centrati, ma ognuno di noi può anche inconsapevolmente aderirvi”. Con tutta questa struttura creata appositamente per il suo film, perché come già detto queste specifiche (su cui spicca fra tutte la biografia di Wonka, inesistente anche nel romanzo originale) sono proprie del film di Burton, anche i più ostili al regista possono riconoscere che questo progetto, ma anche molti altri, non si regge solo su effetti speciali, colori accesi e storie surreali, ma che dietro tutto questo c’è molto di più su cui riflettere, più livelli di approfondimento in base allo spettatore che si rapporta al film.
Sabrina Podda